Gli aggregati della persona

[Il Buddha]

 

Secondo l’insegnamento del Buddha tutti i fenomeni (dhamma) sono insostanziali, ossia non autosufficienti: sono sia composti che causati da elementi diversi da sé. In conseguenza di ciò, sono anche impermanenti, destinati a cessare e, nel caso degli esseri viventi, a invecchiare e morire.

L’essere umano non fa eccezione. Il Buddha rigetta l’idea di un’anima sostanziale e più in generale di una unità psicofisica dell’individuo. Nel Milindapañha, un’opera che riporta i dialoghi tra il re greco Menandro (Milinda), che governò nell’India del nord dal 155 al 130 a.C., e il saggio buddhista Nāgasena (dialoghi che ebbero l’effetto di convertire il re greco al buddhismo) la teoria del non sé, assolutamente inusuale per un greco, è presentata con l’esempio del carro. Affermare che non esiste nessuna persona, come fa Nāgasena presentandosi a Menandro, sembra una provocazione. Il re è giunto con un carro. Ma cos’è un carro? Apparentemente la risposta pare evidente, ma non è così a una indagine più attenta. Un carro è composto di elementi: l’asse, le ruote, il timone, il telaio eccetera. L’asse è il carro? Lo sono le ruote o il timone? Evidentemente no. Nessuno di questi elementi è il carro. Ma il carro non è nemmeno l’insieme di questi elementi: quando diciamo carro stiamo definendo una realtà che ci appare unica, non un aggregato di elementi. Ma, nota Nāgasena, stiamo compiendo un errore, perché questa realtà unica non esiste. E così è per la persona. Ognuno di noi non è che un insieme di elementi che solo per convenzione indichiamo con un nome.

Ma quali sono questi elementi? Essi sono i cinque aggregati (khandha):

1. La forma (rūpa**)**, ossia il corpo, che a sua volta è composto di elementi (i singoli organi, i tessuti, i liquidi vitali eccetera) ed è indissolubile dall’elemento mentale.

2. La sensazione (vedanā), che comprende non solo le sensazioni fisiche, ma anche quelle mentali.

3. La percezione (saññā), che comprende anch’essa sia le percezioni legate ai sensi (vista, udito ecc.) che la percezione degli oggetti mentali.

4. I coefficienti o formazioni mentali (saṅkhāra). Si tratta di un insieme di fattori mentali (la psicologia buddhista giunge ad elencarne cinquanta) che comprende l’intenzione, l’attenzione, ma anche qualità morali come la compassione. Alcuni di questi elementi sono non salutari, perché causa di sofferenza, mentre altri sono salutari.

5. La coscienza (viññāna).

Ritenere che questo insieme mutevole, provvisorio e instabile di elementi sia invece un individuo sostanziale o addirittura un’anima destinata a permanere dopo la morte non è solo un errore conoscitivo; è da questa errata prospettiva che scaturiscono tanto la sofferenza quanto la violenza. Il ritenersi sostanziale è l’ignoranza fondamentale da cui scaturiscono tutti gli elementi torbidi della nostra vita mentale.

Un problema della dottrina buddhista è il seguente: se noi siamo costantemente dentro questa illusione, come possiamo uscirne? Come può accadere che un ego illusorio giunga ad iniziare quel percorso che porterà alla sua stessa dissoluzione? La risposta è nel quarto aggregato, quello delle formazioni mentali. Come abbiamo visto, esso contiene elementi salutari e non salutari. È dai primi che parte il processo di liberazione. C’è nell’individuo illusorio un principio di chiarezza che può essere coltivato e sviluppato attraverso la meditazione e conduce al trascendimento dell’illusione dell’io.

 

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.