Il Buddha

Il Risveglio del Buddha. Scultura del Gandhara, 2-3 secolo a.C.

Indice

La vita

Siddhārtha Gautama, detto il Buddha (il Risvegliato), è nato a Kapilavastu, in Nepal, intorno al 560 a. e. v. Secondo la tradizione era figlio del re Śuddhodana e della regina Māyā, che lo partorì dopo averlo concepito in sogno. In seguito alla profezia di un asceta, secondo la quale il bambino sarebbe diventato un grande maestro spirituale, il padre, che voleva che gli succedesse nella guida del regno, lo chiude nel palazzo reale circondandolo di ogni agio, affinché non si preoccupasse di questioni spirituali. Un giorno tuttavia, uscendo dal palazzo, si imbatté in un malato, in un vecchio e in un cadavere, e fece conoscenza della condizione umana, restandone profondamente turbato. Decise si cercare una soluzione al problema della sofferenza che caratterizza l’esistenza e abbandonò il palazzo paterno, la moglie Yashodara e il figlio Rahula, per dedicarsi alla ricerca come asceta. Seguì alcuni maestri, poi decise di continuare da solo, fino a quando, seduto sotto un albero, ottenne il Risveglio. Dopo qualche titubanza, decise di divulgare il suo insegnamento e divenne presto il capo di una vasta comunità (sangha) di monaci itineranti (bhikku). Morì ad ottant’anni, a causa del cibo guasto offerto da un fabbro che aveva offerto il pranzo a lui ed ai suoi monaci.

La narrazione tradizionale della vita del Buddha è evidentemente mitica. Di certo egli fu un maestro itinerante che rifiutava la tradizione dei Veda, i sacrifici e la divisione in caste e che ebbe un vasto seguito di monaci (bhikkhu).

Sempre secondo la tradizione, i numerosi discorsi del Buddha furono memorizzati dal discepolo prediletto Ananda e furono canonizzati subito dopo la sua morte, al concilio di Rājagaha. I testi sono stati messi per iscritto solo secoli dopo, in lingua pali, nel Tipitaka (Tre canestri). Nei secoli il suo insegnamento si è diffuso in tutta l’Asia, dando origine a diverse scuole: quella theravada, detta anche hinayana (del Piccolo Veicolo), le diverse scuole del mahayana, tra le quali lo zen giapponese, e il vajrayana tibetano, o via del diamante.

Caratteri del Dharma del Buddha

Il Dharma (dottrina) del Buddha, non diversamente da quanto accade nelle altre correnti del pensiero indiano antico, parte dalla considerazione della sofferenza e del disagio che caratterizzano l’esistenza umana, da cui intende liberarlo. La liberazione però non avviene grazie a una conoscenza metafisica. Le questioni sull’origine del mondo e l’esistenza di Dio non hanno per il Buddha alcuna rilevanza. Secondo l’immagine efficace usata in un sutra, è come se un uomo colpito da una freccia invece di curare la ferita si preoccupasse di sapere chi ha scagliato la freccia. Gli esseri umani hanno l’urgenza di affrontare la sofferenza; qualsiasi considerazione metafisica è d’intralcio. Per questo il Dharma del Buddha ha un carattere sostanzialmente ateistico. Non nega l’esistenza degli dèi, che però considera degli esseri viventi non diversi dagli altri, destinati a ricadere nel ciclo delle rinascite, e dunque della sofferenza, una volta esauriti i loro meriti karmici.

Il Dharma del Buddha ha dunque un carattere pratico. È uno strumento che serve a raggiungere la fine della sofferenza. Il Buddha lo paragona a una zattera. Essa serve ad attraversare un fiume e va abbandonata una volta giunti all’altra sponda. Qualsiasi attaccamento verso la dottrina dunque è ingiustificato. Piuttosto bisogna verificare personalmente l’efficacia del percorso di liberazione, mettendo in pratica gli insegnamenti etici e le tecniche di meditazione.

La condizione umana

Con le altre correnti del pensiero indiano l’insegnamento del Buddha condivide la concezione del kamma e della rinascita. Tuttavia il Buddha rifiuta l’esistenza di qualsiasi elemento spirituale sostanziale, e questo pone qualche problema teorico. Se non esiste un’anima o spirito, cosa si reincarna? Per il Buddha l’essere umano è composto di diversi elementi psico-fisici, gli aggregati (khandha) che con la morte si disgregano e tornano a comporsi, guidati dalla forza del kamma, quando la persona rinasce.

Come tutto ciò che esiste, l’uomo è segnato dai cosiddetti tre sigilli del Dharma. Tutto quello che esiste è impermanente (anicca), destinato a invecchiare e morire; tutto è esposto alla sofferenza (dukkha); tutto è privo di identità (anattā).

Occorre soffermarsi su quest’ultima caratteristica. Per il Buddha nulla di ciò che esiste ha un carattere sostanziale. Non esiste nulla che possa sussistere ed essere pensato di per sé, meno che mai l’essere umano. Ogni cosa non è che il punto di incrocio temporaneo di diversi elementi che sono altro da essa. Concepirsi come individui, come realtà sostanziali, è non soltanto illusorio, ma doloroso. Tutto l’insegnamento del Buddha può essere interpretato come un percorso teorico-pratico per liberare dall’illusione di essere individui e dalla sofferenza che ne consegue.

Le quattro nobili verità

Quella appena presentata è la prima nobile verità del Dharma del Buddha: la verità della sofferenza. La seconda nobile verità indaga l’origine della sofferenza e la individua nella brama (tanha), il desiderio che, nato dai sensi, ci porta ad attaccarci di continuo a qualcosa, e principalmente a noi stessi. La terza nobile verità trae le conclusioni delle prime due: se la sofferenza nasce dall’attaccamento, allora è possibile liberarsi dalla prima eliminando il secondo. La quarta nobile verità afferma che esiste un percorso per ottenere questa liberazione: il nobile sentiero in otto parti.

Il nobile sentiero in otto parti

Il nobile sentiero in otto parti è il cuore dell’insegnamento buddhista: indica il percorso di liberazione che ognuno può compiere autonomamente, senza alcun soccorso divino. Bisogna però notare che si tratta di un percorso impegnativo, difficile, che richiede una vita diversa da quella comune, e che dunque può essere seguito fino in fondo solo dal bhikkhu, dal monaco che vive nella foresta. I laici possono avvicinarsi al sentiero e praticarlo in parte, proseguendo il cammino in una successiva rinascita. Questa è una delle differenze più significative tra il buddhismo antico e il mahayana, che afferma la possibilità di liberazione anche per i laici.

Il nobile sentiero in otto parti può essere diviso in tre sezioni. La prima riguarda la saggezza (paññā) e comprende:

  1. Giusta visione: riconoscere l’esistenza del dolore e individuarne l’origine; consiste in sostanza nelle quattro nobili verità.
  2. Giusta intenzione: prendere la decisione di liberarsi, rinunciando ai piaceri e praticando la compassione.

La seconda sezione ha a che fare con il comportamento (sīla), e comprende:

  1. Giusta parola: non usare le parole per ferire gli altri o diffondere menzogne.
  2. Giusta azione: agire in modo da non fare del male agli altri.
  3. Giusta sussistenza: procurarsi il necessario per vivere senza usare metodi che provochino sofferenza a qualsiasi essere vivente.

La terza sezione riguarda le pratiche meditative:

  1. Giusto sforzo: impegnarsi nella pratica meditativa, mossi dalla fiducia nella sua validità.
  2. Giusta presenza mentale.
  3. Giusta concentrazione.

La meditazione

Gli ultimi due punti riguardano le pratiche meditative buddhiste. La presenza mentale è l’obiettivo della meditazione vipassana, ampiamente praticata ancora oggi ed alla base della mindfulness creata dal medico statunitense Jon Kabat-Zinn. Si tratta di una pratica di autoanalisi che comincia dal respiro per poi estendersi a tutto il corpo e quindi passare agli stati mentali. Il meditante deve giungere a una piena consapevolezza di sé: respirare sentendo pienamente il respiro, avvertire tutte le sensazioni del corpo, riconoscere gli stati d’animo e la loro origine, eccetera.

La concentrazione è perseguita dalla pratica della samatha, una pratica che oggi è generalmente considerata accessoria e preparatoria alla vipassana, ma che nei sutra ha un grande rilievo. In questo caso la meditazione parte da un oggetto esterno, ad esempio una piccola fiamma o una ciotola con dell’acqua. Fissando l’attenzione su questo oggetto e creandone un riflesso interno, il meditante realizza stati di coscienza (jhana) sempre più astratti, fino a giungere al superamento della coscienza comune.

Il nibbāna

Il fine ultimo del sentiero è il nibbāna (nirvana in sanscrito). In senso negativo, esso consiste semplicemente nella condizione di liberazione dalla sofferenza. Poiché la sofferenza nasce da una visione illusoria ed egoica, chi ha raggiunto il nibbāna ha estirpato del tutto il proprio ego. Una volta morto, chi ha raggiunto il nibbāna non rinascerà, e sarà dunque liberato per sempre dalla sofferenza. In questa vita sarà ancora esposto alle sofferenze fisiche legate alla condizione umana (lo stesso Buddha secondo i sutra morì in preda a forti dolori intestinali), ma sarà del tutto libero da ogni forma di sofferenza psicologica.

L’etica

Come abbiamo visto, tre parti del sentiero buddhista hanno a che fare con l’etica. Nella prospettiva buddhista le azioni sono giuste o sbagliate nella misura in cui provocano vantaggio o danno a sé stessi e agli altri. Le categorie centrali sono quelle di salutare (kusala) e non salutare (akusala). Un’azione moralmente sbagliata è un’azione che porta a conseguenze negative sia per sé che per gli altri. Queste conseguenze sono sia la sofferenza immediata che il frutto del kamma negativo, che giungerà a maturazione al tempo opportuno.

Alla radice di tutte le azioni eticamente errate ci sono tre veleni, presenti in ognuno: l’avversione (dosa), l’attaccamento (raga) e l’ignoranza (moha). Quest’ultima si può considerare il fattore decisivo: è dall’ignoranza, che consiste nella visione della realtà centrata sull’io, che scaturisce ogni forma di violenza verso sé stessi e verso l’altro. E dunque il cammino etico, come in Socrate, è un cammino di conoscenza, in primo luogo di sé stessi.

Questa conoscenza di sé nell’insegnamento del Buddha è possibile grazie alla meditazione. L’azione dannosa nasce da stati mentali dannosi. La meditazione consente di individuare questi stati d’animo, scorgerne l’origine e la dannosità e superarli. L’etica buddhista non si limita a indicare le mete morali e a presentare un ideale di vita, ma intende mettere a disposizione gli strumenti per raggiungerle.

Il superamento degli stati negativi consente di accedere alle quattro dimore divine (brahmavihara), i valori fondamentali dell’etica buddhista:

  • mettā: la benevolenza universale; essere gentili e amorevoli verso ogni forma di vita e desiderarne il bene
  • karunā: la compassione, intesa come empatia, partecipazione alla sofferenza di ogni essere vivente
  • muditā: il congioire, la partecipazione alla gioia dell’altro
  • upekkhā: l’equanimità, il considerare l’altro come sé stesso, senza operare distinzioni di valore.

L’azione morale va oltre l’orizzonte umana ed ha un’apertura interspecifica: poiché la sofferenza è una caratteristica non solo dell’essere umano, ma di ogni essere vivente, il seguace del Buddha aspira alla liberazione e al bene di tutti gli esseri viventi.

Bibliografia minima

Testi

Canone buddhista. Discorsi lunghi, a cura di E. Frola, UTET, Torino 1967.

Canone buddhista. Discorsi brevi, a cura di Pio Filippani-Ronconi, UTET, Torino 1968.

Gnoli Raniero (a cura di), La rivelazione del Buddha. Vol I: I testi antichi, Mondadori, Milano 2010 (quinta edizione).

Studi

Aa. Vv., Il buddhismo, a cura di G. Filoramo, Laterza, Roma-Bari 2001.

Gombrich Richard, Il pensiero del Buddha, Adelphi, Milano 2012.

Nhat Hanh Thich, Il cuore dell’insegnamento del Buddha, Neri Pozza, Vicenza 2000.

Pasqualotto Giangiorgio, Dieci lezioni sul buddhismo, Marsilio, Padova 2008.

Rahula Walpola, L'insegnamento del Buddha, Paramita, Roma 1994.

Testi

Il Dhamma è come una zattera
"Questo non è mio"
L'io e le sensazioni
"Tutti tremano davanti al bastone"
La mente
La cura di sé è cura dell'altro
Un cuore-mente amorevole

Focus

Gli aggregati della persona
La rinascita
Aspetti dell'etica buddhista

 

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.