Un ritratto di Kant

Lo scrittore Thomad De Quincey (1785-1859), noto per le Le confessioni di un mangiatore d'oppio (1821), dedicò a Kant un’opera biografica – Gli ultimi giorni di Immanuel Kant – che è un delicato ritratto del filosofo e una toccante narrazione della malattia che lo colpì negli ultimi anni di vita.

Immanuel Kant, secondo di sei figli, nacque a Königsberg, in Prussia (una città che a quel tempo conteneva circa cinquantamila abitanti), il 22 di aprile del 1724. I suoi genitori erano di umile rango e non abbastanza benestanti nemmeno in rapporto alla loro posizione sociale, ma capaci (con l’aiuto di qualche parente e con il sostegno di un gentiluomo che li stimava per la loro pietà e le loro virtù domestiche) di dare al loro figlio Immanuel un’istruzione liberale. Egli fu mandato da bambino in una scuola di carità e nell’anno 1732 passò all’Accademia Reale (o Federiciana). Qui studiò i classici greci e latini e diventò intimo con uno dei suoi compagni di scuola, David Ruhnken (in seguito ben noto agli studiosi con il nome latinizzato di Ruhnkenius), che andò avanti fino alla morte di quest’ultimo. Nel 1737 Kant perse sua madre, una donna di carattere elevato, di un livello intellettuale superiore al suo stato, che contribuì alla futura grandezza del suo illustre figlio grazie alla direzione che impresse sui suoi pensieri infantili e l’elevata morale alla quale lo aveva abituato. Kant parlò sempre di lei, fino alla fine della sua vita, con la massima tenerezza e con il più sincero riconoscimento del suo debito verso le cure materne. […]

Egli, di fatto, rispettava in modo puntuale la regola di Lord Chesterfield – che a un suo pranzo, incluso lui stesso, il numero delle persone non doveva essere inferiore al numero delle Grazie e superiore al numero delle Muse. Nell’intera economia della sua casa, specie ai suoi pranzi, c’era qualcosa di peculiare e di piacevolmente contrastante con gli usi convenzionali della società; non, tuttavia, perché venisse trascurato qualcosa riguardo al decoro, come a volte accade nelle case in cui non c’è una donna ad imporre un certo tono alle maniere. La routine, che non cambiava o si rilassava in nessuna circostanza, era questa: appena il pranzo era pronto, Lampe, il cameriere del professore, entrava nello studio con una certa aria misurata e lo annunciava. Questo invito era eseguito a gran velocità, con Kant che dirigendosi verso la sala da pranzo continuava a parlare del tempo che faceva, un argomento che di solito proseguiva durante la prima parte del pranzo. Temi più seri, come gli eventi politici del tempo, non venivano mai introdotti prima del pranzo, o comunque nel suo studio. Appena Kant aveva preso il suo posto ed aperto il suo tovagliolo, apriva la discussione con una formula particolare: “Ora, dunque, signori!” Le parole sono nulla; ma il tono e l’aria con cui le pronunciavano proclamavano, in un modo che nessuno avrebbe potuto equivocare, il rilassamento dalle fatiche del giorno e il deliberato abbandono al piacere della società. […]

Non c’era amico di Kant che non considerasse un giorno di piacere festivo quello in cui era invitato a pranzare da Kant. Senza darsi le arie di un maestro, Kant lo era al massimo grado. L’intero intrattenimento era condito dalla sua mente illuminata, che si versava naturalmente, senza affettazione, su qualsiasi argomento, a seconda della direzione della conversazione; e il tempo passava rapidamente, dall’una alle quattro, cinque e anche più tardi, con profitto e piacere. Kant non tollerava le bonacce, il nome che lui dava alle pause momentanee nella conversazione, quando l’animazione languiva. In un modo o nell’altro riusciva sempre a rianimare l’interesse, e in questo era assistito molto dal tatto con cui riusciva a trarre fuori da ogni invitato i suoi particolari gusti o il particolare indirizzo delle sue ricerche; e su queste, quali che esse fossero, non gli mancava mai la preparazione per parlarne con cognizione di causa e con l’interesse di un osservatore originale. Le faccende locali di Königsberg dovevano essere davvero molto interessanti perché si consentisse loro di usurpare l’attenzione alla sua tavola. E, cosa che sembra più singolare, raramente o mai dirigeva la conversazione su qualsiasi branca della filosofia fondata da lui stesso. Era perfettamente libero da quel difetto di tanti sapienti o letterati, ossia l’intolleranza verso coloro le cui ricerche non abbiano alcuna affinità con le proprie. […]

Immediatamente dopo la fine del pranzo. Kant faceva una passeggiata per tenersi in esercizio; ma in questo caso non aveva mai compagnia; in parte, perché riteneva giusto, dopo tanto rilassamento conviviale e colloquiale, dedicarsi alle sue meditazioni, e in parte (come ho saputo) per una sua ragione particolare: voleva respirare esclusivamente attraverso le narici, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse stato obbligato continuamente ad aprire la bocca per conversare. La ragione di ciò era che l’aria atmosferica, essendo trasportata così per un percorso più lungo, raggiungeva i polmoni in uno stato di minore crudezza e ad una temperatura maggiore, irritandoli dunque di meno. Saldo in questa pratica, che raccomandava costantemente ai suoi amici, si vantava di una lunga immunità a raffreddori, raucedine, catarro e ogni genere di affezione polmonare; e di fatto questi disturbi lo attaccarono molto raramente. […]

Giunse il febbraio del 1804, l’ultimo mese che Kant ebbe in destino di vedere. […] Il 3 febbraio sembrò che le molle della vita smettessero di funzionare; da quel giorno, parlando in senso stretto, non mangiò più nulla. La sua esistenza da allora sembrò il mero prolungarsi di un impeto acquisito in ottant’anni di vita, dopo che il meccanismo che la muoveva si era ritirato. Il suo medico lo visitava ogni giorno a una certa ora, e si era deciso che sarei sempre stato presente per incontrarlo. Nove giorni prima della sua morte, facendo la sua visita consueta, accadde un piccolo episodio che colpì entrambi, ricordandoci con forza l’inestirpabile cortesia e bontà della natura di Kant. Quando fu annunciato il medico, andai da Kant e gli dissi: “C’è il dottor A.”. Kant si alzò dalla sua poltrona e, offrendo la sua mano al dottore, mormorò qualcosa in cui venne ripetuta la parola “posti”, con l’aria di voler essere aiutato a completare la frase. Il dottor A., che pensò che con posti egli intendesse le stazioni di posta per il cambio dei cavalli, e di conseguenza che stesse delirando, replicò che tutti i cavalli erano impegnati, e lo pregò di calmarsi. Ma Kant insistette, con grande sforzo, e aggiunge: “Molti posti, difficili posti – dunque molta bontà – dunque molta gratitudine.” Queste cose furono dette con apparente incoerenza, ma con grande calore e con crescente padronanza. Nel frattempo avevo capito quello che Kant, ostacolato dalla sua debolezza mentale, cercava di dire: “Quello che il professore cerca di dire, dottor A., è che, considerando che ha molti posti, e di grande impegno, nella città e nell’università, ritiene che sia bontà da parte sua dedicargli tanto tempo” (perché il dottor A. non prese mai alcun onorario da Kant); “e che egli ha il senso più profondo di questa bontà“. ”Giusto”, disse Kant con gravità, “giusto!” Ma continuava a restare in piedi, ed era sul punto di cadere a terra. Quindi avvisai il medico, e ne ero convinto, che Kant non si sarebbe seduto, per quanto soffrisse restando in piedi, fino a quando non avesse visto sedersi i suoi ospiti. Il dottore sembrava in dubbio; ma Kant, che aveva sentito quello che avevo detto, con uno sforzo prodigioso confermò la mia spiegazione del suo comportamento, e disse distintamente: “Dio non voglia che io sprofondi al punto tale da dimenticare i doveri dell’umanità“.

Thomas De Quincey, Last Days of Immanuel Kant and Other Writings, Adam and Charles Black, Edinburgh 1862, pp. 103, 107-108, 110, 114-115, 157-158. Traduzione di Antonio Vigilante. Licenza CC BY 4.0.

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