Interpretazioni di Mozi

[Mozi]

Pur essendo uno dei massimi rappresentanti della nonviolenza italiana, Ernesto Balducci presenta in modo sostanzialmente critico il pensiero di Mozi. Il filosofo, scrive, aveva uno “zelo non scevro da fanatismo” (Storia del pensiero umano, p. 90). Concordando con “il suo avversario Mencio”, Balducci conclude, facendo riferimento all’amore indifferenziato insegnato da Mozi, che

un amore così generico e indiscriminato, affidato per di più alle premure coattive del potere, è già di per se una fonte di disordini e di ingiustizie, perché il suo impeto generoso, non illuminato dalla razionalità e intimamente avverso alla bellezza e alla gioia di vivere, si capovolge paradossalmente (anche la storia del cristianesimo lo dimostra) nel suo opposto, nel fanatismo distruttivo. Niente di strano che, dopo un periodo di larga diffusione, il Mochia (la scuola di Mo-tse) sia stata espunto dalla coscienza cinese, che meglio si ritrovava nell'equilibrato umanesimo confuciano. (Ivi, p. 92)

Balducci interpreta il rifiuto mohista del lusso, dei riti e della musica come una espressione di uno spirito austero, che combatte le manifestazioni artistiche e la bellezza in quanto tali, e non per le conseguenze negative che hanno sulla vita delle classi umili.

Una lettura favorevole a Mencio è invece quella di Anne Cheng, sinologa del Collége de France, che ha presenti le ragioni etico-politiche di Mozi. L’amore indifferenziato mohista rappresenta

una reazione alla perversione dei sentimenti morali d’affetto per coloro che sono più prossimi: nepotismo, favoritismi, intrighi, imbrogli, congiure, fazioni sono le tare che costituiscono il lato oscuro del confucianesimo e che gravano sul funzionamento delle istituzioni cinesi fin dal loro inizio. Nondimeno, una tale reazione non avrebbe mancato di provocare lo sdegno del grande confuciano del IV secolo, Mencio, per il quale il livellamento auspicato dai moisti è incompatibile con l’amore che naturalmente si porta ai propri parenti e di cui la pietà filiale è la prima espressione; ciò equivarrebbe, nelle indignate parole di Mencio, a vivere come bestie. (pp. 89-90)

Leonardo Vittorio Arena conclude la sua presentazione del pensiero di Mozi osservando che il filosofo è passato alla storia come promotore dell’amore universale, “malgrado alcuni cedimenti utilitaristici che ridimensionano la portata etica degli assunti” (La filosofia cinese, p. 91). Non si comprende per quale ragione l’utilitarismo, che è il fondamento stesso dell’etica di Mozi, dovrebbe rappresentare un cedimento. Anche perché l’utile di cui qui si parla non è quello personale, ma il bene del popolo. Un altro giudizio singolare di Arena riguarda la promozione dei meritevoli:

E anche gli aspetti innovatori della sua filosofia, come l’esigenza di elevare i meritevoli alle alte cariche statali, abolendo il diritto di nascita, erano già stati anticipati da altri, nel caso specifico da Confucio. (Ibidem)

Poco più avanti Arena conclude scrivendo che

la maggiore critica nei suoi riguardi, ovviamente confuciana, fu dettata dal buon senso: “come si può amare il figlio del vicino come il proprio?” (Ibidem)

Ma questo spiega esattamente per quale ragione la dottrina di promuovere i meritevoli non è stata anticipata da Confucio. Se non è possibile considerare il figlio del vicino come il proprio, sarà inevitabile attribuire cariche e responsabilità al proprio figlio, e non al figlio del vicino, anche se privo di meriti. Ed è contro questo sistema di favoritismi familistici che Mozi si scaglia.

Il grande orientalista Paolo Beonio-Brocchieri (1934-1991) riconosce i meriti di Mozi e della sua scuola soprattutto in campo epistemologico.

Se le sue esperienze non fossero rimaste ben presto senza seguito, la filosofia cinese presenterebbe con ogni probabilità una ricchezza molto maggiore di temi e di soluzioni riguardanti il problema del discorso e il problema della conoscenza. (I primi maestri: Confucio e Mo Ti, p. 46)

Beonio-Brocchieri difende Mozi dall’accusa di non tener conto in modo adeguato della necessaria elaborazione intellettuale dei dati dei sensi, pur riconoscendo che “il suo empirismo è prevalentemente sensistico, e che la sua accettazione dei dati dell'esperienza è spesso acritica” (ibidem), come dimostra la sua credenza nell’esistenza degli spiriti, che è una conclusione senz’altro bizzarra per un empirista.

Secondo Chris Fraser, docente di filosofia cinese all’università di Toronto, si può sostenere che si debba considerare Mozi e non Confucio quale primo filosofo cinese. È con Mozi, per Fraser, che compare nel pensiero cinese l’argomentazione filosofica vera e propria, mentre l’insegnamento confuciano procede per aforismi. Per Fraser Mozi è il primo pensatore consequenzialista della storia ed il primo che abbia fondato un’etica sistematica sull’idea di imparzialità (The Philosophy of the Mozi: The First Consequentialists, Introduzione).

Riferimenti bibliografici

Arena, Leonardo Vittorio, La filosofia cinese, BUR, Milano 2000.

Balducci, Ernesto, Storia del pensiero umano, Cremonese, Firenze 1986, vol. 1.

Beonio-Brocchieri, Paolo, I primi maestri: Confucio e Mo Ti, in Storia della filosofia. 2. La filosofia cinese e dell’Asia orientale, a cura di Mario Dal Pra, Vallardi, Milano1977.

Cheng, Anne, Storia del pensiero cinese, Einaudi, Torino 2000, vol. 1.

Fraser, Chris, The Philosophy of the Mozi: The First Consequentialists, Columbia University Press, New York 2016 (ebook).

 

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 Internazional.