Scienze umane e scomparsa dell'uomo

[Michel Foucault]

 

Nella parte conclusiva di Le parole e le cose Foucault discute la scientificità delle scienze umane evocando la figura del triedro, uno spazio aperto che nasce dall’incontro di tre piani. Un piano è rappresentato dalle scienze fisiche e matematiche, un secondo piano dalle scienze empiriche (biologia, economia, linguistica ecc.) e un terzo piano dalla filosofia. Queste discipline hanno la possibilità di dar vita a piani comuni: le filosofia può ad esempio occuparsi dei problemi emersi dallo studio scientifico della vita, come filosofia della vita, mentre l’economia e a linguistica possono far ricorso alla matematica.

Le scienze umane hanno una collocazione problematica in questa figura. Non trovano posto in nessuno dei piani, ma nell’interstizio formato dal loro incontro. Sono in relazione con altre scienze, da cui importano di continuo modelli e concetti, senza avere una collocazione certa e stabile. Questa precarietà epistemologica non è dovuta alla complessità dell’oggetto delle scienze umane, l’uomo, ma deriva dalla stessa episteme moderna, che da un lato rende possibile queste discipline, dall’altro le costringe in una posizione difficile, per cui esistono solo posizionandosi a ridosso di altre scienze. Questo non vuol dire, per Foucault, che sono scienze la cui scientificità è più debole di quella della matematica o della biologia. Vuol dire che “non sono affatto scienze” (Le parole e le cose, p. 392).

L’uomo stesso, soggetto ed oggetto delle scienze umane, è in fase di dissoluzione, come mostrano le più importanti di esse, la psicoanalisi e l’etnologia, che non solo non sono in grado di fornire un concetto generale di uomo, ma si concentrano su ciò che rappresenta il limite dell’umano, cogliendo l’esistenza di strutture che vanno al di là della coscienza e che sono costitutive dell’umano. Ma a segnare la dissoluzione dell’uomo è anche il ritorno del linguaggio. L’uomo è un esito della modernità. Nasce in quell’epoca in cui il legame immediato tra le parole e le cose va in crisi, ed il linguaggio per così dire si frantuma. Secondo Foucault, nell’epoca contemporanea il linguaggio sta ricomponendo la sua unità, come dimostrano alcune esperienze letterarie, come quella di Antonin Artaud, nelle quali la sperimentazione linguistica spinge l’essere umano non verso la sua origine, “ma all’orlo di ciò che lo limita: ossia nella regione in cui si aggira la morte, in cui il pensiero si spegne, in cui la promessa dell’origine indefinitamente arretra” (ivi, p. 410).

Questa dissoluzione dell’uomo ha in Foucault il valore di una vera liberazione. È un risveglio dal “sonno antropologico” che è stato anticipato da Nietzsche, in cui la morte di Dio implica anche la morte dell’uomo, che rende possibile nuovamente il pensiero. “Oggi — scrive Foucault — possiamo pensare soltanto entro il vuoto dell’uomo scomparso”; questa scomparsa non è una mancanza, ma “l’apertura d’uno spazio in cui finalmente è di nuovo possibile pensare” (ivi, p. 368)

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY 4.0 International.