Quale connessione tra opere d’arte ed emozioni?

Niccolò Dell'Arca, Compianto sul Cristo morto. Particolare. CC BY 4.0 International.

Le connessioni tra opere d’arte ed emozioni sono molteplici; questo capitolo si propone di descrivere quelle filosoficamente significative. Per farlo si concentrerà sulla teoria dell’arte come espressione e sulle sue principali alternative.

Possiamo descrivere le opere d’arte come tristi o allegre, ad esempio, e più in generale come espressione di emozioni come entusiasmo, ammirazione e disperazione. Per fare degli esempi famosi, il dipinto L’urlo di Edvard Munch esprime angoscia; la Pavana per un’infanta morta di Ravel la tristezza del lutto; il film Mad Max di George Miller la rabbia di fronte alla perdita dei parenti. Ma come possiamo comprendere e spiegare questo legame tra opere d’arte ed emozioni in termini di espressione? Ed è l’espressione l’unica relazione tra opere d’arte ed emozioni? In questo capitolo esploreremo tre alternative principali: la prima sezione analizza l’idea che le opere d’arte esprimano le emozioni dell’artista; la seconda che l’arte susciti e rappresenti emozioni indipendentemente dalle emozioni dell’artista; la terza l’idea secondo la quale l’arte esprime emozioni di per sé.

Presentiamo più da vicino queste alternative. La prima è generalmente definita Teoria Espressiva dell’Arte: se le opere d’arte possono essere descritte con il vocabolario delle emozioni, in quanto esprimono emozioni, è perché esprimono le emozioni dell’artista. Un’ulteriore caratteristica è che questa espressione dell’artista permette al pubblico di provare queste stesse emozioni. Ma sembra necessario valutare una simile teoria: è legittimo spiegare la tristezza di una poesia dicendo che in realtà esprime la tristezza del suo creatore? La seconda teoria non fa riferimento alle emozioni dell’artista. Una relazione più importante è quella tra l’opera d’arte e il pubblico, in quanto la prima è fatta per suscitare emozioni nel secondo o per rappresentare emozioni per il secondo. Ma qual è la differenza tra suscitare e rappresentare? E qual è il legame tra rappresentare ed esprimere emozioni? La terza alternativa difende proprio l’idea che le opere d’arte esprimano emozioni in sé, senza essere necessariamente collegate alle emozioni dell’artista o a quelle del pubblico.

Per far emergere la specificità di questo tema è necessario fare una premessa di carattere storico. Che le opere d’arte esprimano le emozioni dell’artista è un’idea che compare con il romanticismo, all’inizio del XIX secolo. 1 Prima di questo periodo predomina un’altra concezione delle opere d’arte: esse erano considerate come rappresentazioni della realtà.2 Questo concetto di rappresentazione può essere inteso in molti modi e solleva diverse questioni, ma la più importante per questo capitolo è che questo concetto di rappresentazione è stato più o meno soppiantato dal concetto di espressione, come si può vedere ad esempio nella famosa affermazione del poeta romantico inglese William Wordsworth (1770-1850) nella sua prefazione alle Lyrical Ballads: “tutta la buona poesia è il traboccare spontaneo di sentimenti potenti”(Wordsworth e Coleridge [1800] 1991, 237). Anche se, secondo Wordsworth, “il continuo fluire dei nostri sentimenti è modificato e diretto dai nostri pensieri” (237) e il suo scopo era quello di descrivere e colorare la vita ordinaria, l’espressione delle emozioni divenne centrale, un criterio non solo per giudicare ma anche per definire la poesia, e in seguito qualsiasi tipo di arte.

La Teoria Espressiva dell’Arte

In questa sezione cominceremo con una descrizione della Teoria Espressiva dell’Arte, seguendo due suoi famosi sostenitori: Lev Tolstoj3 (1828–1910) in Cos’è l’arte? e R. G. Collingwood (1889–1943) in I principi dell’arte. Quindi prenderemo in considerazione alcune dure critiche che è possibile rivolgere a questa teoria.

Supponiamo che troviate che questa o quella poesia esprima rabbia; è piuttosto naturale cercare di spiegarla dicendo che la poesia esprime la rabbia dell’artista. Più precisamente, la menzione della rabbia dell’artista funziona qui sia come giustificazione della nostra descrizione, sia come spiegazione della poesia stessa, nel senso che si suppone che il poeta abbia provato tale sentimento e abbia prodotto la poesia in base al suo sentimento. Tuttavia, è possibile perfezionare questa spiegazione ordinaria utilizzando risorse letterarie e filosofiche.

Tolstoj presenta la Teoria Espressiva dell’Arte nel quinto capitolo di Che cos’è l’arte? I suoi primi quattro capitoli sono dedicati alla bellezza, dal momento che la bellezza è molto spesso considerata un criterio per distinguere tra arte e non arte. Tolstoj critica questo uso dell’idea di bellezza per proporre un altro metro: l’espressione delle emozioni. L’idea di bellezza è particolarmente controversa, e come tale non può fornire una definizione di arte. Per questo Tolstoj considera un’altra opzione, spostando l’arte in un quadro più generale: “le condizioni della vita umana” (Tolstoy 1904, p. 47). L'arte dovrebbe essere una di queste condizioni della vita umana, o più precisamente “uno dei mezzi di comunicazione tra uomo e uomo” (47). Tolstoj definisce poi l’arte in questo modo:

Evocare in sé stessi un sentimento che si è provato una volta, e dopo averlo evocato in sé stessi, per mezzo di movimenti, linee, colori, suoni o forme espresse in parole, trasmettere quel sentimento in modo che altri possano provare lo stesso sentimento: questa è l’attività dell’arte.

L’arte è un’attività umana, che consiste nel fatto che un uomo consapevolmente, per mezzo di certi segni esterni, trasmette ad altri i sentimenti che ha vissuto, e che altre persone sono contagiate da questi sentimenti e li sperimentano anch’esse. (Tolstoy 1904, 50)

Questa definizione implica, in primo luogo, la presenza di un artista, di un pubblico e di un’emozione; in secondo luogo, che il trasferimento dell’emozione dall’artista al pubblico sia intenzionale ( “consapevolmente”); in terzo luogo, che ciò richieda un’evocazione interiore e una chiarificazione di ciò che viene vissuto; in quarto luogo, che l’espressione sia basata su specifici mezzi artistici (movimenti, linee, colori, suoni, parole).

In questo modo Tolstoj mette insieme gli elementi di un modello dinamico dell’arte, sottolineando gli agenti, l’azione e i mezzi implicati nell’esperienza e nella pratica artistica. Tale modello è per Tolstoj più appropriato del criterio della bellezza, in quanto coglie la natura dell’arte attraverso la sua pratica.

Anche Collingwood sottolinea questi aspetti dell’arte, utilizzando il concetto di espressione per definire l’arte nella sua versione della Teoria Espressiva. Tuttavia, la sua rilevanza e il suo valore aggiunto rispetto a Tolstoj risiedono nella distinzione che egli fa tra l’espressione delle emozioni e l’espressione artistica:

Quando si dice che un uomo esprime emozioni, ciò di cui si tratta è quanto segue. All’inizio, egli è consapevole di provare un’emozione, ma non di quale sia questa emozione. Tutto ciò di cui è cosciente è una perturbazione o un’eccitazione che sente accadere dentro di sé, ma di cui ignora la natura. In questo stato, tutto ciò che può dire della sua emozione è: “Sento... non so cosa sento”. Da questa condizione di impotenza e di oppressione egli si libera facendo qualcosa che chiamiamo “esprimersi”. È un’attività che ha a che fare con ciò che chiamiamo linguaggio: si esprime parlando. Ha anche a che fare con la coscienza: l’emozione espressa è un’emozione della cui natura la persona che la prova non è più inconsapevole. Ha anche a che fare con il modo in cui sente l’emozione. Quando è inespressa, la sente in un modo che abbiamo definito impotente e oppresso; quando è espressa, la sente in un modo in cui questo senso di oppressione è scomparso. La sua mente è in qualche modo alleggerita e sollevata. (Collingwood 1960, 109-10)

All’inizio del processo di creazione non c’è una data emozione “già pronta” che aspetta di essere espressa, ma ciò che Collingwood chiama una perturbazione, un’eccitazione; vale a dire, un sentimento interno, la cui natura e la cui causa sono ancora indeterminate. Un’attività, l’espressione di sé (il cui paradigma è il linguaggio) chiarisce, rende cosciente la perturbazione e la trasforma in un’emozione, alleviando al contempo la perturbazione dell’individuo. Collingwood considera quindi l’espressione delle emozioni in modo più profondo e sottile, descrivendone più precisamente le azioni e gli effetti negli individui, ma tralasciando altre dimensioni prese in considerazione da Tolstoj, come la necessità di un pubblico e i mezzi di espressione artistica. Questo è il punto di partenza della prossima sezione.

Il pubblico, l’identità e l’esistenza delle emozioni nella creazione artistica

Le Teorie Espressive dell’Arte di Tolstoj e Collingwood sono discutibili; faremo obiezioni corrispondenti ai loro punti principali.

La prima obiezione riguarda la necessità di un pubblico a cui comunicare le emozioni. Una caratteristica interessante della versione di Collingwood (1960) di questa teoria è che “l’espressione di un’emozione con un discorso può essere indirizzata a qualcuno; ma in tal caso non è fatta con l’intenzione di suscitare in lui un’emozione simile” (110, corsivo mio). Questo introduce una differenza con la teoria di Tolstoj. Secondo quest’ultima, l’arte consiste, come attività, nel trasmettere emozioni ad altre persone; mentre, secondo la prima, la relazione dell’arte con un pubblico è solo una possibilità, non una necessità. La conseguenza è che esistono in realtà due versioni della Teoria Espressiva dell’Arte, denominate da Noël Carroll in Philosophy of Art [Filosofia dell’arte] rispettivamente “teoria della trasmissione” e “teoria dell’assolo” (Carroll 1999, 65).

Qual è il problema? L'obiezione alla teoria della trasmissione è che “si può fare un’opera d’arte per sé stessi” senza cercare di pubblicarla (ad esempio, letteratura) o di esporla (ad esempio, pittura, scultura) (Carroll 1999, 67). Chi la leggerà o la vedrà la considererà un’opera d’arte, ma se l’artista la nasconde, l’opera è comunque un’opera d'arte. La controreplica è che il semplice fatto di scrivere una poesia, o di produrre un dipinto, o di creare un brano musicale, è un uso di mezzi di comunicazione pubblici che rende pubbliche le emozioni, il che “indica l’intenzione di comunicare ad altri” (67).

Una soluzione può essere sviluppata a partire da due osservazioni simili. In primo luogo, c’è una distinzione tra pubblico effettivo e potenziale. Un artista potrebbe non volersi rivolgere a questo o quel pubblico, ma creare un’opera d’arte pensata per comunicare a un pubblico potenziale. In secondo luogo, si può mettere in discussione l’intenzione di comunicare ad altri, senza mettere in discussione la comunicazione stessa. Anche se non è intenzione di un artista comunicare emozioni agli altri, un’opera d’arte può comunque comunicare emozioni. Queste due osservazioni convergono nell’idea che la comunicazione è una potenzialità, non necessariamente un’intenzione e nemmeno un fatto. Questa potenzialità si attualizza se l’opera d’arte viene presentata a un pubblico. Questa idea preserva sia l’idea che si possa fare un’opera d'arte per sé stessi, sia che il mezzo utilizzato sia accessibile al pubblico.

C’è una seconda obiezione che si può muovere alla versione trasmissiva. Si tratta dell’identità dell’emozione che si suppone venga comunicata dall’artista al pubblico. “Identità” significa innanzitutto che il pubblico prova la stessa emozione dell’artista, il che implica che l’artista ha provato questa emozione e la trasmette. Ma è necessariamente così? Un poeta può esprimere un sentimento di dolore, ma il pubblico prova ammirazione per questa espressione. Prendiamo ad esempio la poesia di Victor Hugo Domani, all’alba (1856), legata alla morte della figlia:

Domani, all’alba, nell’ora in cui s’imbianca la campagna,
me ne andrò. Vedi, so che mi stai aspettando.
Me ne andrò per la foresta e la montagna.
Non posso più stare lontano da te.

Camminerò con gli occhi fissi sui miei pensieri,
senza vedere nulla fuori, senza sentire alcun suono,
solo, sconosciuto, con la schiena piegata e le mani giunte,
triste, e il giorno per me sarà come la notte.

Non guarderò l’oro della sera che cade,
né le vele in lontananza che scendono verso Harfleur,
e quando verrò, metterò sulla tua tomba
un mazzo di agrifoglio e di erica in fiore. (Hugo 2004, 199)

L'emozione espressa e l’emozione provata possono non essere le stesse: Hugo esprime tristezza, annientamento e isolamento, mentre il pubblico può benissimo provare tristezza, ma anche compassione, e forse più in generale ammirazione, in risposta a una simile espressione d’amore.

L’“identità” si riferisce anche all’identificazione delle emozioni. Si suppone che il pubblico provi “queste” emozioni, come se fosse possibile identificare chiaramente le nostre emozioni. Si può sottolineare la generalità e la vaghezza di certe emozioni. Non sono necessariamente individualizzate, ma generali, condivise, e non sono necessariamente definite in modo chiaro, ma vaghe. Nell’esempio precedente, le emozioni si sovrappongono e alcune sono esplicitamente menzionate, altre solo suggerite. È vero che potrebbe essere proprio la funzione delle opere d’arte quella di individualizzare e definire le nostre emozioni. Ma questa idea si adatta solo a una parte della pratica artistica: ad esempio, la poesia è solo a volte un’evocazione di emozioni intrecciate.

In definitiva, la Teoria Espressiva dell’Arte presuppone l’esperienza delle emozioni da parte dell’artista. Tuttavia, non è affatto detto che debba sperimentare egli stesso questa emozione. Lo scrittore di un thriller prova forse paura, in modo che il thriller esprima e produca paura nel pubblico? È probabile che provi eccitazione nel tentativo di produrre paura. Questa obiezione non riguarda più l’identità dell’emozione, ma la sua stessa esistenza, alle radici della potenziale relazione tra l’artista e il pubblico. Perché un artista dovrebbe provare un’emozione? Certo, sarebbe difficile difendere l’idea che gli artisti non provino alcuna emozione. Ma questo non significa che le emozioni siano la causa, la ragione o l’oggetto della creazione. In questo senso, le emozioni non sono sempre necessarie alla creazione.

Elicitare e rappresentare le emozioni

Queste critiche non implicano il rifiuto dell’espressione delle emozioni nell’arte, ma solo dell’idea che l’arte debba essere definita come un’espressione delle emozioni dell’artista a un pubblico con determinati mezzi. Inoltre, tale critica consente altre possibili descrizioni della relazione tra opere d’arte ed emozioni, come l’elicitazione e la rappresentazione, che considereremo in questa sezione.

Un’idea classica dell’approccio retorico alle opere letterarie è che esse suscitino emozioni. La retorica descrive le tecniche con cui si è in grado di produrre reazioni in un pubblico a seconda del contesto. In campo giudiziario, l’avvocato deve convincere i giudici riguardo a fatti passati per vincere la causa. In campo politico, i politici e i cittadini comuni devono convincersi a vicenda a prendere una decisione sul futuro, in base a ciò che è utile o dannoso per il Paese. Nel campo dei discorsi pubblici, l’oratore deve elogiare o confortare. In tutti questi casi, la retorica fornisce mezzi non linguistici, come consigli sulla postura, sui gesti, ecc. e linguistici, come schemi di argomentazione (ad esempio, gli entimemi) e figure retoriche, che giocano e suscitano reazioni emotive, al fine di convincere e persuadere.

Al di là di questi campi specifici, la critica letteraria e più in generale l’estetica utilizzano (tra l’altro) le figure del discorso studiate e sistematizzate dalla retorica. Lo fanno non solo per descrivere le opere d’arte letterarie e lo stile delle opere d’arte, ma anche per mostrare il modo in cui gli artisti e gli scrittori letterari usano queste figure del discorso come mezzi per suscitare emozioni. Consideriamo la prima strofa di Le strenne degli orfani (1870) di Rimbaud:

La stanza è piena di ombre; si sente vagamente
il triste e dolce sussurro di due bambini.
Le loro fronti si piegano, ancora pesanti di sogni,
sotto la lunga tenda bianca che trema e si solleva…
Fuori gli uccelli si stringono, infreddoliti
le ali si intorpidiscono sotto il grigiore del cielo.
E il nuovo anno, con la sua scia di nebbia,
strascicando a terra il suo vestito di neve
sorride piangendo, e rabbrividendo canta… (Rimbaud 2001, 3)

Una caratteristica significativa è la sua struttura generale, organizzata intorno alla contrapposizione di due luoghi, una stanza e l’esterno, ma anche la continuità stabilita tra loro dall’eco dell’ombra della stanza nel triste sussurro degli orfani, da un lato, e dalla nebbia del nuovo anno e del suo sorriso tra le lacrime, dall’altro. Ma ancora più importante è la personificazione dell’anno nuovo, che trascina la nebbia, si veste di neve, sorride tra le lacrime e rabbrividendo canta, come una presenza esterna che fa eco alla tristezza degli orfani all’interno. Questa figura retorica contribuisce a suscitare impressioni visive ed emotive, poiché un’immagine si materializza gradualmente e sorge un sentimento di tristezza che avvolge l’intera strofa.

Un modo alternativo di descrivere questa evocazione di emozioni si trova nel saggio di T.S. Eliot su Hamlet and His Problems [Amleto e i suoi problemi], sotto l’etichetta di “correlativo oggettivo”. Eliot cerca di spiegare quello che, secondo lui, è il fallimento di Amleto. Il punto di partenza è il suo accordo con l’idea che “l’emozione essenziale del dramma è il sentimento di un figlio [Amleto] verso una madre colpevole” (Eliot 1939, 144). Se c'è un fallimento, però, sta nel fatto che “Amleto è dominato da un’emozione che è inesprimibile, ... che lo sconcerto di Amleto per l’assenza di un equivalente oggettivo ai suoi sentimenti è un prolungamento dello sconcerto del suo creatore di fronte al suo problema artistico” (145). Per contro, ecco la regola che T.S. Eliot propone:

L'unico modo di esprimere un’emozione in forma d’arte è trovare un “correlativo oggettivo”; in altre parole, un insieme di oggetti, una situazione, una catena di eventi che siano la formula di quella particolare emozione; in modo tale che quando i fatti esterni, che devono terminare nell’esperienza sensoriale, sono dati, l’emozione è immediatamente evocata. (Eliot 1939, 145)

L’emozione dell’opera teatrale e, più in generale, dell’opera letteraria si trova in un correlativo oggettivo, che è un “equivalente esatto” caratterizzato da una “completa adeguatezza dell’esterno all’emozione”. Vale a dire, più concretamente, l’emozione si trova in una descrizione di situazioni, eventi, personaggi, reazioni, che mostra questa emozione, e quindi in una piena rappresentazione dell’emozione che la suscita nel pubblico. Secondo T.S. Eliot si trova un buon esempio di correlativo oggettivo in Macbeth:

Troverete che lo stato d’animo di Lady Macbeth che cammina nel sonno vi è stato comunicato da un abile accumulo di impressioni sensoriali immaginarie; le parole di Macbeth alla notizia della morte della moglie ci colpiscono come se, data la sequenza degli eventi, queste parole fossero state automaticamente rilasciate dagli ultimi eventi della serie. (Eliot 1939, 145)

Tuttavia, sarebbe superficiale presentare l’elicitazione delle emozioni come una produzione causale di emozioni per mezzo di figure del discorso. Come dice Danto nella sua discussione su Aristotele e la retorica nell’ultima parte de The Transfiguration of the Common place [La trasfigurazione del luogo comune],

se è l’ira che essi [i retori] intendono suscitare, sapranno come caratterizzare l’oggetto dell’ira in modo tale che l’ira verso quell'oggetto sia l’unica risposta giustificabile… Dopo tutto, come le credenze e le azioni – in contrasto con le nude percezioni e i semplici movimenti corporei – le emozioni – in contrasto forse con i nudi sentimenti – sono incorporate in strutture di giustificazione. Ci sono cose che sappiamo di dover provare, data una certa caratterizzazione delle condizioni in cui ci troviamo. (Danto 1981, 169)

Suscitare emozioni per un’opera d'arte (letteraria) non è solo una questione di relazione causale: l’opera d’arte, le sue figure retoriche, o il suo stile, se riuscito, sono tali che si dovrebbe avere una determinata risposta emotiva. In altre parole, non qualsiasi emozione è ammissibile, ma solo alcune sono giustificabili di fronte a una particolare opera d’arte.

Per concludere questa sezione è possibile sostenere che, anche se le opere d’arte non esprimono necessariamente le emozioni dell’artista, esse suscitano emozioni nel pubblico attraverso mezzi artistici come le figure del discorso nelle opere letterarie, o la rappresentazione delle emozioni nella scelta di una certa oggettività “correlata”, come una serie di azioni in un’opera teatrale o un insieme di forme e colori in un dipinto.

Un'espressione autonoma

L’idea sostenuta nell’ultima sezione, secondo cui le opere d’arte possono rappresentare le emozioni, ci permette di tornare alla nozione di espressione, ma in modo diverso dalla Teoria Espressiva dell’Arte presentata nella prima sezione. T.S. Eliot usa “rappresentazione” ed “espressione” in modo quasi indistinto, ma questi termini vanno raffinati. Cosa significa che le opere d’arte non solo rappresentano ma esprimono anche emozioni da sole? È necessaria un’analisi più approfondita della nozione di espressione.

Nei nostri giudizi ordinari, parliamo della tristezza di una poesia, del fatto che un certo brano musicale sia descritto come gioioso e un altro come disperato, o che un particolare stile per un edificio sia freddo. Da qui la domanda: Si può dire che le opere d’arte esprimano esse stesse delle emozioni? E perché sarebbe un problema? Come spiega Oets K. Bouwsma in The Expression Theory of Art [La Teoria Espressiva dell’Arte]:

L’uso di termini emotivi – triste, allegro, gioioso, calmo, inquieto, speranzoso, giocoso, eccetera – nel descrivere musica, poesie, immagini, eccetera, è davvero comune. Finché tali descrizioni vengono accettate e comprese in modo innocente, non ci sarà, ovviamente, alcun enigma. Ma quasi tutti possono capire i motivi della domanda: “Come può la musica essere triste?” e della risposta impulsiva: “Non può, naturalmente”. (Bouswma 1959, 74)

Come spiegare un uso così paradossale dei termini emotivi, che sembra essere allo stesso tempo accettato e impossibile? Ciò che si presuppone in “La musica non può essere triste” è “...come qualcuno può essere triste”. È il motivo per cui, secondo Bouswma, è interessante considerare e confrontare diversi usi di “triste”, come: “Cassie è triste”, “Il cane di Cassie è triste”, “Il libro di Cassie è triste” e “Il viso di Cassie è triste”. Nel primo caso, si può immaginare Cassie che apprende la morte di un parente stretto e piange, oppure che legge una poesia meravigliosa ma triste e diventa triste lei stessa, piangendo o meno. Nel secondo caso, ha senso dire che il cane può essere triste, ma potrebbe piangere? Non ci si aspetta che il cane esprima la tristezza in tutti i modi in cui lo fanno gli esseri umani (un cane non frena i suoi ululati). Si può parafrasare il terzo caso dicendo che questo libro rende Cassie triste. E nell’ultimo caso, si possono facilmente descrivere segni evidenti di tristezza, ma non è detto che sia davvero triste.

Quale conclusione possiamo trarre ora rispetto all’affermazione “la musica è triste”? Questa affermazione non è simile né a Cassie che è triste e piange a causa di una morte in famiglia, né a Cassie che è triste ma non piange, né al suo cane che è triste ma non piange: una canzone non è né piangere né trattenere le lacrime! È molto più simile a “il libro è triste”, inteso come produzione di tristezza, ma in particolare come tristezza in sé, come può essere triste un volto, sia esso un volto reale o un disegno: il libro, la musica e il volto esprimono essi stessi tristezza, ma in un modo specifico.

Come si può spiegare questa espressione? Questi esempi sono davvero sullo stesso piano? Si può trovare una risposta nella teoria dell’espressione di Nelson Goodman in Languages of Art [Linguaggi dell’arte], che si basa sui concetti di esemplificazione e metafora.

Un’espressione può essere considerata una sorta di esemplificazione. L’esemplificazione si riferisce a una certa relazione di qualcosa con alcune proprietà. Per esempio, un campione di tessuto esemplifica il cashmere, in quanto (1) è fatto di cashmere e quindi possiede questa proprietà di essere fatto di cashmere, (2) qua campione, si riferisce a questa proprietà. In effetti, qualcosa può riferirsi al cashmere senza possedere questa proprietà di essere fatto di cashmere, come nel caso di una descrizione di questo tessuto.

Tuttavia, una simile definizione di esemplificazione non è sufficiente a spiegare la descrizione di un’opera d’arte come se esprimesse una tale o talaltra emozione. È vero che una poesia triste possiede questa proprietà di essere triste e si riferisce alla tristezza in generale, ma come può una poesia triste essere “fatta di tristezza” o essere descritta letteralmente come triste? La poesia non è descritta letteralmente come triste ma metaforicamente; il possesso della proprietà non è letterale ma metaforico.[3] Pertanto, una poesia esemplifica la tristezza in quanto (1) si riferisce alla tristezza e (2) possiede la tristezza (3) metaforicamente.

Si potrebbe obiettare che questa idea di possesso metaforico è oscura, come se solo il possesso letterale fosse privo di difficoltà (ad esempio, in “questa pietra è dura”). Tuttavia, tra i diversi modi di descrivere cose, eventi, persone, ecc. è possibile attribuire proprietà in modo metaforico (e quindi vedere in questo possesso un’esemplificazione della proprietà in questione). Si potrebbe rispondere che, trattandosi di una metafora, la tristezza non è “realmente” nella poesia. Tuttavia, il fatto è che una descrizione metaforica di questo tipo è talvolta molto più oggettivamente vera di una descrizione letterale. Descrivere qualcuno come un “Don Chisciotte” o un “Don Giovanni” (il che significa che questa persona possiede metaforicamente ed esemplifica le proprietà di Don Chisciotte o di Don Giovanni) non solleva necessariamente un problema, mentre descrivere letteralmente tale o talaltra entità come un virus o un organismo solleva a volte reali difficoltà e disaccordi tra gli scienziati. In questo senso, che una canzone o una poesia esprima questa o quella emozione può essere perfettamente oggettivo.

Conclusione

Per concludere, c’è sicuramente qualcosa di giusto nell’affermazione ordinaria che le opere d’arte esprimono emozioni. Ciò significa che il problema sta da un’altra parte, nelle analisi filosofiche di tale affermazione. Sebbene nella filosofia contemporanea si possano trovare diverse analisi, non tutte sono in grado di dare un senso all’affermazione ordinaria sull’espressione delle emozioni da parte delle opere d’arte.

Più precisamente, tutti gli elementi citati da Tolstoj sono interessanti per chi è appassionato di arte: la relazione tra artista e pubblico, la condivisione delle emozioni e i mezzi utilizzati per farlo. Tutti questi elementi appartengono alla nostra esperienza e alla nostra pratica dell’arte e un pregio dell’analisi di Tolstoj è proprio quello di considerare le opere d’arte in questo contesto più ampio: le nostre pratiche ed esperienze. Allo stesso tempo, solleva una questione filosofica su cosa sia essenziale in questa descrizione generale se si vuole comprendere la caratteristica specifica delle opere d’arte per quanto riguarda le emozioni: l’espressività.

Questo capitolo si è proposto di mostrare l’espressività intrinseca delle opere d’arte, oltre alla loro capacità di suscitare e rappresentare emozioni, prescindendo in ultima analisi dall’esperienza emotiva dell’artista e del pubblico. L’idea non è quella di negare la realtà di tale esperienza, né la sua importanza per l’artista e il pubblico, ma di evidenziare come l’espressività delle opere d’arte possa essere trovata in sé stessa, perché esse stesse sono descrivibili come espressione di tale o tale emozione. Per andare oltre in questa direzione, si potrebbe dire che la chiave dell’espressività si trova nel funzionamento delle opere d’arte, per esempio nel modo in cui un dipinto descrive un paesaggio, possiede tali o tali caratteristiche (colori o linee), e fa riferimento alla tristezza o alla gioia. Ciò che è (caratteristiche) e ciò che fa (descrizione e riferimento) sono centrali per capire come un’opera d'arte esprima infine le emozioni. Il passo successivo sarebbe quello di tornare alla nostra esperienza e alla nostra pratica: in che modo esse modellano la nostra capacità di cogliere le emozioni espresse dalle opere d'arte? Qual è il ruolo dell’esperienza e della pratica nella comprensione dell’espressività dell’opera d'arte?

Riferimenti bibliografici

Bouswma, Oets K., “The Expression Theory of Art”, in Aesthetics and Language, edited by William Elton, Blackwell, Oxford 1959, pp. 73-99.
Carroll, Noël, Philosophy of Art, Routledge, London and New York 1999.
Collingwood, Robin G., The Principles of Art, Clarendon Press, Oxford 1960.
Danto, Arthur, The Transfiguration of the Commplace, Harvard University Press, Cambridge, MA 1981.
Eliot, Thomas Stearns, Selected Essays, Faber and Faber Limited, London 1939.
Hugo, Victor, Selected Poems of Victor Hugo, translated by E. H. and A. M. Blackmore, Chicago University Press, Chicago 2004.
Goodman, Nelson, Languages of Art, The Bobs-Merrill Company, Indianapolis 1968.
Rimbaud, Arthur, Collected Poems, edited by Martin Sorrell, Oxford University Press, Oxford 2001. In italiano: Opere, a cura di Ivos Margoni, Feltrinelli, Milano 1964.
Tolstoy, Leo, What is Art?, translated by Aylmer Maude, Funk & Wagnalls, New York 1904. In italiano: Che cosa è l’arte?, Mimesis, Udine 2010.
Wordsworth, William and Coleridge, Samuel Taylor, Lyrical Ballads, edited by R. L. Brett and A. R. Jones. 2nd ed., Routledge, London [1800] 1991.

Note

1 In particolare in Gran Bretagna con la poesia di William Wordsworth, ad esempio le Ballate liriche (1798), o in Germania con i dipinti di Caspar David Friedrich, ad esempio Viandante sopra il mare di nebbia (1818).
2 Le opere più rappresentative di questa tradizione sono la Repubblica di Platone e la Poetica di Aristotele, anche se la sovrapposizione del loro concetto di imitazione con quello di rappresentazione è problematica. La domanda è infatti: Le opere d’arte devono imitare la realtà? Se sì, cosa significa “imitare” in questo caso? E qual è la realtà che dovrebbe essere imitata?
3 Nel testo si fa uso della grafia prevalente in Italia: Tolstoj. Nella bibliografia e nei rimandi ad essa invece si mantiene la grafia usata nei paesi anglosassoni: Tolstoy (N.d.T.)

Introduction to Philosophy: Aesthetic Theory and Practice, di Andrew Broady, Elizabeth Burns Coleman, Pierre Fasula, Richard Hudson-Miles, Ines Kleesattel, Xiao Ouyang, Matteo Ravasio, Yuriko Saito, Elizabeth Scarbrough, Matthew Sharpe, Ruth Sonderegger, Valery Vino e Alexander Westenberg; a cura di Valery Vino e Christina Hendricks, prodotto con il supporto della Rebus Community. L'originale è disponibile gratuitamente con licenza CC BY 4.0 al'url: https://press.rebus.community/intro-to-phil-aesthetics. Edizione italiana a cura di Antonio Vigilante.