L’uscita a destra di Byung-Chul Han

Byung-Chul Han

🡄 Byung-Chul Han

Non so quante volte, dopo aver chiuso un libro di Byung-Chul Han, mi sono detto: bene, ma come ne usciamo? Bene per modo di dire, perché se apprezzo la chiarezza del filosofo sudcoreano e ritengo che nelle sue analisi vi sia molto di vero, mi pare anche che si tratti, più che di un ritratto della società attuale, di una sua caricatura. Che come tutte le caricature può servire a individuare meglio i difetti di un volto, ma che come tutte le caricature è frutto di una accentuazione unilaterale, che non coglie le possibilità di bellezza che possono essere anche in un volto irregolare. C’è poi una questione metodologica. Byung-Chul Han ha la pretesa di parlare, nientemeno, della società contemporanea, ossia di un campo vastissimo; arriva d’un balzo, cioè, dove un sociologo onesto si arresta, e lo fa senza aver bisogno di alcun dato sociologico o statistico. Non è il solo a farlo, a dire il vero, e nella sociologia non mancano esempi di imprese simili, spesso suggestive e di grande successo; ma si tratta di semplificazioni di una realtà complessa e contraddittoria. Caricature, appunto. 

E tuttavia mi pare che Byung-Chul Han colga alcune tendenze centrali del mondo attuale. Se, ad esempio, non mi pare affatto che sia stata superata la società disciplinare teorizzata da Foucault, come da lui sostenuto, mi pare vero che sia in atto oggi una nuova forma di autocontrollo e di autodisciplina, che si serve di strumenti come lo smartphone. Siamo in un inferno neoliberista, nel quale le logiche economiche stanno progressivamente cancellando l’umano stesso, nell’analisi del filosofo sudcoreano. E dunque: che fare? Come è noto, la critica radicale del capitalismo accomuna estrema destra ed estrema sinistra. Dall’inferno neoliberista si può uscire – ammesso che se ne possa uscire davvero – dalla porta di destra o dalla porta di sinistra. Fuori di metafora: cercando di tornare a un mondo premoderno o attraversando la modernità, anzi la postmodernità per cercare una società che ne mantenga le conquiste superandone i limiti. Da che parte sta Byung-Chul Han? 

L’opera nella quale il filosofo si scopre maggiormente dal punto di vista politico è probabilmente Vom Verschwinder der Rituale. Eine Topologie der Gegenwart, da poco uscito in italiano (La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, nottetempo, Milano 2021). La tesi è che tra le caratteristiche dell’attuale società della stanchezza c’è la scomparsa dei riti, che nella sua interpretazione si pongono all’estremo opposto dello smartphone: se quest’ultimo è una non-cosa, un dispositivo inquietante (nel senso che produce inquietudine) che richiama di continuo la nostra attenzione, in modo costrittivo, i riti hanno la funzione di stabilizzare la vita “per mezzo della propria medesimezza, della loro ripetizione”, rendendo la vita “resistente” (p. 13; corsivo nel testo). La società attuale, incapace di ripetizione rituale, ha il culto dell’autenticità, che non è null’altro che una forma di produzione (di produzione di sé) neoliberista. Una produzione che comprende una messa a nudo di sé che ha tratti pornografici.

Il neoliberismo è spesso interpretato come religione, ma  se religione è ciò che unisce, esso “è tutt’altro che una religione poiché gli manca qualsiasi capacità di riunire e di mettere in comune” (p. 62). Quella capitalistica è un’ideologia del lavoro, ossia di ciò che è profano per eccellenza; sacro è il riposo, sacra è la festa, sacro è il gioco. E dunque “fare un uso diverso, giocoso, della vita diventa un compito politico”, come anche “riconquistare il riposo contemplativo” (p. 64). Bella idea, la cui traduzione pratica però difficilmente sfuggirebbe alla logica stessa del neoliberismo. Che ha un mercato vastissimo di soluzioni contemplative, riposanti e ludiche, funzionali alla macchina della produzione. E soprattutto: non si può pensare di cavarsela, su un tema così importante, con due righe suggestive, o con la sciocchezza di un “reincanto del mondo” da cui “ci si potrebbe aspettare un’energia curativa in grado di contrastare il narcisismo collettivo” (p. 39). Quello che sembra sfuggire a Byung-Chul Han è che i rituali creano unione, ma anche differenza. Le società tradizionali, fortemente ritualizzate, sono state spesso società ferocemente diseguali, ed i rituali servivano proprio a segnare la differenza di status, le pratiche si sottomissione, le differenze sociali. Un sistema di rituali è perfettamente compatibile con – è anzi necessario a – un sistema totalitario. E reincantare il mondo è quello che hanno cercato di fare il nazismo in Germania e il Fascismo in Italia.

Più di qualche sospetto sul carattere regressivo della visione di Byung-Chul Han viene leggendo la lunga citazione dal Ramo d’oro di Frazer nel capitolo su La vita in gioco. Il passo di Frazer parla di un “rito arcaico” durante il quale molti soldati si uccidono per semplice gioco, “tutti felici di morire, non per l’ombra di una corona, ma per dimostrare al mondo il loro indomito coraggio e la loro abilità di spadaccini” (p. 69; il testo è di Frazer). Una società sana, che sa giocare con la vita, mentre la nostra “società della produzione è dominata dalla paura della morte” (p. 70). Se non avere paura della morte porta a questo spreco di vite, ben venga la paura neoliberista della morte. E se la via d’uscita è massacrarsi per gioco grazie a un reincanto rituale del mondo, forse è meglio non uscire affatto dal neoliberismo.

C’è un tratto comune, tra gli altri, delle visioni della sinistra critica, ed è la valorizzazione della creatività individuale; un valore che conduce alla critica, appunto, degli stessi sistemi comunisti. Se questa creatività degenera nella produzione di sé, nella rappresentazione sociale di una identità pornograficamente protesa verso lo sguardo dell’altro, è evidentemente un problema, una spia sul malfunzionamento del sistema. Ma non è una buona ragione per negare il valore della creatività individuale e rifugiarsi nell’abbraccio rassicurante, e mortale, dei riti. Senza chiedersi nemmeno di sfuggita cosa questo rappresenterebbe per chi è sfruttato, per chi è ai margini, per chi è vittima del sistema di produzione capitalistico, per chi non ha una casa, per chi migra. Tutte questioni che hanno bisogno di un assoluto disincanto.