La rinascita

[Il Buddha]

 

L’insegnamento del Buddha nega l’esistenza dell’anima ma afferma la rinascita secondo la legge del karma. Dopo la morte l’individuo può rinascere in qualche forma nel nostro mondo oppure in qualcuno dei paradisi e degli inferni di cui il Buddha afferma l’esistenza. Ma in che modo ciò può accadere, se non c’è un elemento spirituale in grado di sopravvivere al disfacimento del corpo?

Nel Milindapañha il re Menandro pone al saggio Nagasena una questione legata a questo problema: “Colui che nasce è lo stesso o un altro?”. (La rivelazione del Buddha, vol. I, p. 125) Nagasena risponde osservando che la stessa questione si potrebbe porre per la persona in vita. Il bambino, il giovane, l’adulto e l’anziano sono la stessa persona o sono persone diverse? Evidentemente sono persone diverse, ma al tempo stesso sono la stessa persona. Il latte, spiega ancora, può essere trasformato in caglio e poi in burro e infine in burro chiarificato. Sono cose diverse, ma l’uno deriva dall’altro. Allo stesso modo c’è una continuità tra esseri viventi che pure appaiono diversi.

Quello che sembra poco convincente, nonostante l’efficacia delle similitudini, è la mancanza di un sostrato che garantisca la continuità. Nel caso dell’individuo questo sostrato è il corpo, che si trasforma nel corso degli anni, ma lo fa lentamente, in modo da garantire una continuità. Nel caso della morte, invece, abbiamo un evento che non sembra consentire alcuna continuità, a meno che non si pensi appunto a un sostrato spirituale.

Come mai il Buddha sostiene una visione così difficile? Occorre considerare le conseguenze che avrebbe la negazione della rinascita. L’insegnamento del Buddha parte dalla constatazione della sofferenza. Se con la morte finisse tutto, con essa cesserebbe anche la sofferenza. Il suicidio sarebbe allora la soluzione definitiva al problema dell’esistenza umana. Negare la rinascita significherebbe negare anche il karma, una concezione fortemente radicata nella visione del mondo indiana dell’epoca (e non solo). Ciò avrebbe avuto conseguenze immoralistiche. Se non esistono effetti negativi delle nostre azioni in una esistenza futura, perché trattenersi dal fare il male? Nella concezione buddhista il male è la conseguenza di un disordine interiore che è a sua volta causa di infelicità, per cui fare il male vuol dire essere presi nella stessa rete di sofferenza in cui si imprigionano gli altri, ma questa consapevolezza è propria di chi è già nel cammino di consapevolezza che conduce al risveglio. Per gli altri, temere le conseguenze future delle proprie azioni può essere un valido deterrente morale.

Occorre ricordare che per il Buddha la sua dottrina è uno strumento, una zattera che serve per traghettare verso l’altra sponda. Non vuole essere una teoria sul mondo, ma un insieme di convinzioni e di pratiche efficaci con lo scopo unico di superare in modo definitivo la sofferenza.

Riferimenti bibliografici

Gnoli Raniero (a cura di), La rivelazione del Buddha. Vol. I: I testi antichi, Mondadori, Milano 2010 (quinta edizione).

 

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.