La filosofia come pratica di liberazione

[Socrate]

 

In questo passo del Fedone platonico Socrate illustra al pitagorico Cebete la sua visione della filosofia come tecnologia del sé finalizzata alla liberazione dal ciclo delle rinascite.

 

“Per questo motivo, coloro che hanno a cuore la propria anima e non vivono al servizio del corpo, voltano le spalle a tutti questi uomini e non seguono le loro strade, perché sentono di non sapere dove stanno andando. Essi stessi credono che la filosofia, con la sua liberazione e purificazione, non debba essere contrastata, e così si voltano e la seguono ovunque essa conduca”.

“In che modo lo fanno, Socrate?”.

“Te lo dirò”, rispose. “Gli amanti della conoscenza”, disse, “si rendono conto che quando la filosofia si impadronisce per la prima volta della loro anima, questa è interamente legata e saldata al corpo ed è costretta a guardare le realtà attraverso il corpo come attraverso le sbarre di una prigione, non da sé e per sé, e sguazza nella più totale ignoranza. E la filosofia vede che la cosa più terribile della prigionia è il fatto che è causata dal desiderio, così che il prigioniero è il principale artefice della sua stessa prigionia. Gli amanti della conoscenza, allora, dico, percepiscono che la filosofia, impossessandosi dell’anima quando si trova in questo stato, la incoraggia dolcemente e cerca di liberarla, facendole notare che gli occhi, le orecchie e gli altri sensi sono pieni di inganni, esortandola a ritirarsi da questi, se non nella misura in cui il loro uso è inevitabile, ed esortandola a raccogliersi e a concentrarsi in sé stessa, a non fidarsi di nulla se non di sé stessa e di ciò che pensa da sé stessa e a credere che non ci sia verità in ciò che vede con altri mezzi e che varia con i vari oggetti in cui appare, poiché tutto ciò che è di questo tipo è visibile e percepito dai sensi, mentre l'anima stessa vede ciò che è invisibile e percepito dalla mente. Ora, l’anima del vero filosofo ritiene di non dover opporsi a questa liberazione e perciò si tiene lontana dai piaceri e dalle passioni, dai dolori e dalle paure, per quanto le è possibile, considerando che quando qualcuno ha piaceri o paure o dolori o passioni violente, subisce non un male comune — per esempio la malattia o la perdita di denaro a causa delle sue passioni — ma subisce il male più grande ed estremo e non se ne accorge”.

“Qual è questo male, Socrate?”, disse Cebete.

“Il male è che l’anima di ogni uomo, quando si compiace o si addolora per qualcosa, è costretta a credere che l’oggetto che ha provocato l’emozione sia ben distinto e molto vero; ma non è così. Questi oggetti sono per lo più quelli visibili, non è vero?”

“Certamente”.

“E quando questo accade, l'anima non è forse ridotta completamente in schiavitù dal corpo?”.

“Come mai?”

“Perché ogni piacere o dolore la inchioda al corpo e la salda su di esso e la rende quasi corporea, così che si immagina che siano vere le cose che il corpo dice che sono vere. Poiché ha le stesse credenze e gli stessi piaceri del corpo, è costretta ad adottare anche le stesse abitudini e lo stesso modo di vivere, e non può mai partire in purezza verso l’Ade, ma deve sempre andarsene contaminata dal corpo; e così sprofonda rapidamente in un altro corpo e cresce in esso, come un seme che viene seminato. Perciò non ha parte alla comunione con ciò che è divino, puro e assoluto”.

 

Platone, Fedone, 82D-83E. Traduzione di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.