Friedrich Heinrich Bils, La casa di Kant a Königsberg. Pubblico dominio

Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me.

Indice

1. La vita

Il pensatore che ha rivoluzionato profondamente la filosofia occidentale, portando a maturazione il pensiero illuministico e aprendo idealmente l’età contemporanea, ha vissuto una lunga vita priva di scossoni. Magro e di piccola statura, vantava una salute di ferro, che attribuiva anche alla sua vita assolutamente regolare: sveglia alle cinque meno cinque, colazione, lezione all’Università, pranzo frugale con diversi invitati, quindi la passeggiata solitaria del primo pomeriggio e a letto alle dieci di sera. Di temperamento gioviale, era un conversatore affabile e piacevole, benché i suoi scritti siano tutt’altro che semplici. Non ebbe mai relazioni sentimentali e non mostrò mai alcun interesse per il sesso. Immanuel Kant è nato a Königsberg, capitale della Prussia orientale, il 22 aprile 1724, in una famiglia umile. Il padre era un sellaio; la madre Anna, fervente pietista, ebbe una grande influenza su di lui, ma morì quando aveva solo tredici anni. Poté studiare grazie al sostegno economico di un mecenate nel rigorosissimo collegio Fridericianum e nel 1740, a sedici anni si iscrisse all’Università della sua città; si mantenne agli studi dando lezioni e private e giocando a biliardo. Studiò matematica, scienze naturali, filosofia e teologia. Morto anche il padre, per vivere lavorò per qualche tempo come precettore, finché ottenne la libera docenza e tenne lezioni sugli argomenti più diversi, molto apprezzate dagli studenti anche per lo stile leggero e divertente del suo insegnamento. Solo nel 1770, quando aveva ormai raggiunto una ampia notorietà, ottenne la cattedra di Filosofia e Logica. Nel 1781 comparve la Critica della ragion pura, seguita nel 1788 dalla Critica della ragion pratica e nel 1790 dalla Critica del giudizio: le tre opere che consacrano Kant come uno dei maggiori pensatori di ogni tempo. Nel 1793 pubblicò La religione entro i limiti della semplice ragione, opera che suscitò una dura reazione del re Federico Guglielmo II, che gli intimò di non occuparsi più di religione. Il filosofo non poté che obbedire. Morì nel 1804, dopo circa quattro anni di demenza senile (o Alzheimer). Le sue ultime parole furono: “Es ist gut” (Ciò è bene). Sulla sua tomba, nella cattedrale di Königsberg, un epitaffio riporta le celebri parole della Critica della ragion pura: “Due cose riempiono la mente con sempre nuova e crescente ammirazione e rispetto, tanto più spesso e con costanza la riflessione si sofferma su di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me.”

2. Fasi del suo pensiero

La pubblicazione della prima Critica segna una cesura netta nel pensiero di Kant. Prima di allora il filosofo si era occupato di argomenti diversi, con contributi originali ma che non si distaccavano particolarmente dalla riflessione filosofica del tempo. Ci sono dunque due fasi nel pensiero di Kant: quella degli scritti precritici, che comprende la produzione del filosofo dal 1746 al 1777, e quella degli scritti critici, dal 1778 alla morte. In questa fase è opportuno ancora distinguere le opere maggiori, ossia le tre Critiche, dagli scritti minori, che analizzeremo in conclusione.

John Chapman, Ritratto di Kant. Wellcome Library no. 4962i. Licenza CC BY 4.0 International

3. Gli scritti precritici

Durante gli studi universitari Kant è stato influenzato in modo decisivo dal pensiero scientifico di Newton, e di carattere prevalentemente scientifico sono i suoi primi scritti, tra i quali è degno di nota in particolare la Storia universale della natura e teoria del cielo (1755), in cui il filosofo elabora una ipotesi che poi sarà chiamata di Kant-Laplace, perché elaborata diversi anni dopo, indipendentemente da Kant, dal fisico francese Pierre Simon Laplace. Secondo questa ipotesi, il nostro sistema solare si è formato a partire da una nebulosa primordiale, che si sarebbe addensata grazie all’azione della forza di gravità, dando origine al sole e poi a pianeti via via meno densi. In altre opere di questo periodo si occupa di altre questioni scientifiche, come l’esistenza e la natura del vuoto, mentre gradualmente i suoi interessi si concentrano su questioni più strettamente filosofiche. Nel 1763 pubblica L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, in cui critica la prova ontologica dell’esistenza di Dio, come riformulata da Descartes, con un argomento che sarà poi ripreso nella Critica della ragion pura, e ne propone una alternativa, che però non è presentata come un argomento, e non come una prova indiscutibile. Il ragionamento di Kant è il seguente: il mondo in cui viviamo è evidentemente possibile (se non fosse possibile, non esisterebbe); ma questa possibilità deve poggiare su un essere che non sia non solo possibile, ma anche necessario. Dio è l’essere necessario che fonda la possibilità del mondo.

Nell’opera del 1766 I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica Kant si occupa del caso di Emanuel Swedenborg, un notissimo medium dell’epoca. Sollecitato a esprimersi sulla vicenda, Kant ne approfitta per attaccare i metafisici del suo tempo: coloro che creano sostanze immaginarie, credendole reali, non sono troppo diversi da coloro che credono di poter comunicare con gli spiriti dei defunti. Kant tuttavia non rifiuta la metafisica. ma un certo modo di intendere la metafisica, che porta a teorizzare piani di realtà che vanno oltre la nostra esperienza; rettamente intesa, invece, la metafisica è fondamentale. E intenderla rettamente significa concepirla come la scienza che si occupa dei limiti della conoscenza umana, distinguendo ciò che possiamo da ciò che non possiamo conoscere.

Il 1679 è un anno fondamentale nella formazione del pensiero di Kant. Il filosofo parlerà di una “grande luce”, l’intuizione, favorita anche dalla lettura di David Hume, che dà una nuova direzione al suo pensiero, anche se occorreranno ancora anni di lavoro intellettuale per darle forma. Ma una prima esposizione di alcune delle idee fondamentali della prima Critica sono esposte già nella dissertazione dell’anno seguente, De mundi sensibilis atque intellegibilis forma ed principiis, con la quale Kant ottiene la cattedra universitaria. Qui il filosofo afferma che lo spazio ed il tempo non sono proprietà degli oggetti, ma forme a priori della nostra sensibilità grazie alle quali cogliamo i fenomeni.

4. Il criticismo

Che cosa possiamo davvero conoscere? Fin dove si può spingere la ragione umana? Questo è il problema della filosofia di Kant. Ma per rispondere a questo problema occorre che la filosofia sia una critica dell'esperienza e della conoscenza, nel senso che ne valuta la validità ed i limiti. Kant però non è uno scettico. Non giunge alla conclusione che l'essere umano non può conoscere nessuna verità. Il suo intento è, una volta individuati i limiti della nostra ragione, fondare delle conoscenze certe entro questi limiti. Come dire: non potremo conoscere tutto, ma quello che potremo conoscere sarà vera conoscenza.

5. La Critica della Ragion Pura

5.1. I giudizi  

Che cosa possiamo conoscere, allora? La conoscenza si esprime attraverso dei giudizi, ossia affermazioni che uniscono un soggetto con un predicato. Se vogliamo analizzare la conoscenza dobbiamo dunque analizzare i nostri giudizi. Ci sono diversi tipi di giudizio, a seconda del rapporto tra soggetto e predicato:

  1. Giudizi analitici a priori. Se io dico “il triangolo ha tre angoli”, sto dicendo una cosa evidente, che non aggiunge nulla a quello che già si sa. In questo caso, il predicato è già incluso nel soggetto: quando pensi un triangolo, pensi già una cosa che ha tre angoli. Questi giudizi si chiamano a priori perché non derivano dall'esperienza.
  2. Giudizi sintetici a posteriori. Se io dico “le rondini sono partire”, sto dando un’informazione, dicendo qualcosa che non è implicita nel soggetto. Questa mia affermazione è basata sull’esperienza: lo dico perché ho visto le rondini partire. Per questo il giudizio è a posteriori

Entrambi questi giudizi hanno dei limiti. I giudizi analitici a priori sono validi ed universali, ma non dicono nulla di nuovo; i giudizi sintetici a posteriori dicono qualcosa di nuovo, ma derivando dall’esperienza possono essere inesatti e non validi universalmente. La scienza non si può fondare né con i primi né con i secondi. Per fondare la scienza occorre un terzo tipo di giudizi: i giudizi sintetici a priori, vale a dire dei giudizi che non derivino dall’esperienza, ed al tempo stesso dicano qualcosa di nuovo. Ma sono possibili giudizi di questo tipo? Per rispondere occorre studiare in che modo avviene la conoscenza.

5.2. Come conosciamo?

Per Kant, la nostra mente riceve continuamente dai sensi una grande quantità di impressioni e sensazioni. Esse da sole non costituiscono alcuna conoscenza. Affinché vi sia una conoscenza del mondo occorre che tutte queste impressioni che ci provengono dal mondo esterno siano ordinate ed interpretate dalla nostra mente. Questa idea di Kant è rivoluzionaria, e per questo la paragona alla rivoluzione copernicana. Fino a Copernico si pensava che la Terra fosse ferma e il sole le girasse intorno. Fino a Kant, si pensava che la nostra conoscenza fosse una visione immediata del mondo esterno. Kant rovescia questa concezione: l’immagine del mondo è in realtà una costruzione della nostra mente, che lavora sistemando i dati che provengono dai sensi.

5.3 Estetica trascendentale

Vediamo più in dettaglio che cosa succede quando conosciamo qualcosa. All’inizio c'è l’esperienza dei sensi: noi, ad esempio, vediamo qualcosa. Quando la vediamo, non la stiamo ancora pensando: non è un concetto, ma una intuizione. Ora, le cose che percepiamo sono caratterizzate dal fatto di occupare uno spazio ed un tempo. Ma dove si trovano lo spazio e il tempo? Appartengono alle cose? Li deriviamo dall’esperienza che facciamo del mondo? No, avviene l’esatto contrario: spazio e tempo sono dentro di noi e noi li usiamo, senza accorgercene, per inquadrare tutto ciò di cui facciamo esperienza. [T Lo spazio] Essi sono forme a priori della sensibilità. Il fatto che appartengano a noi e non alle cose tuttavia non implica che siano soggettivi, poiché sono universali: ognuno di noi inquadra la sua esperienza secondo le sue forme a priori dello spazio e del tempo, che però sono uguali in tutti; per questo più soggetti percepiscono in modo identico uno stesso spazio (ad esempio un cubo). Lo spazio è la forma a priori con la quale conosciamo gli oggetti esterni, mentre il tempo riguarda sia la nostra interiorità (la nostra coscienza si presenta con uno scorrere temporale) che il mondo esterno, dal momento che tutto ciò che conosciamo diventa per ciò stesso interno a noi. La parte della Critica in cui Kant studia lo spazio e il tempo si chiama estetica trascendentale. Estetica, perché studia le sensazioni (estetica deriva dal greco aisthesis, sensazione). Perché trascendentale? Kant usa il termine per indicare lo studio di ciò che, essendo dentro di noi (a priori), rende possibile la conoscenza del mondo. L'estetica trascendentale studia dunque quelle cose che dentro di noi rendono possibile l'intuizione sensoriale dei fenomeni: lo spazio ed il tempo, appunto.

5.4. L'intelletto e le categorie

Fino ad ora siamo rimasti nel campo della sensibilità. Se ci fermassimo qui, non avremmo la conoscenza, ma solo l’intuizione di cose che sono nello spazio e nel tempo. Vedremmo, ad esempio, oggetti che occupano uno spazio, ma non riusciremmo a cogliere le relazioni tra di loro; non saremmo in grado di pensare che un oggetto è caduto perché è stato colpito da un altro oggetto. Ci mancherebbe in questo caso il concetto di causalità. Per avere conoscenza occorre formulare dei giudizi, e per formulare dei giudizi occorre avere dei concetti. Questa operazione viene compiuta dall’intelletto.

Esistono due tipi di concetti: alcuni sono derivati dall’esperienza (ad esempio il concetto di albero), mentre altri sono puri, perché fanno parte del nostro intelletto indipendentemente dall’esperienza. Questi concetti puri Kant li chiama categorie, usando lo stesso termine che usava Aristotele. Ma c’è una differenza importante: per Aristotele le categorie sono caratteristiche dell’essere, hanno cioè un valore ontologico, mentre in Kant hanno un valore gnoseologico, riguardano cioè non la realtà in sé, ma la nostra conoscenza della realtà. Quante sono le categorie? Poiché usiamo le categorie per giudicare, esse sono tante quanti sono i giudizi. Per Kant ci sono dodici tipi di giudizi, cui corrispondono dodici categorie, divise in quattro tipi:

Quantità: unità, pluralità, totalità

Qualità: realtà, negazione, limitazione

Relazione: inerenza e sussistenza (una certa proprietà appartiene a una sostanza), causalità e dipendenza (una cosa è causa di un'altra), comunanza (due cose agiscono l'una sull'altra)

Modalità: possibile-impossibile, esistenza-non esistenza, necessità-contingenza (una cosa deve esistere per forza oppure è accidentale).

5.5. Deduzione trascendentale

Quando ragioniamo noi usiamo queste categorie che, come detto, essendo pure fanno parte della nostra mente. Ma se fanno parte della nostra mente, siamo sicuri che siano valide per conoscere la realtà, che è fuori dalla nostra mente? Questo è il problema della deduzione trascendentale. Il termine deduzione in questo caso indica la dimostrazione che una pretesa è legittima, e proviene dal linguaggio forense (ad esempio: Tizio ha occupato un campo perché è suo di diritto). Quando noi pensiamo qualcosa, questo pensiero è, appunto, un nostro pensiero. Ogni pensiero è dunque possibile perché esiste quello che Kant chiama io penso (o appercezione trascendentale), che ha la funzione di unificare la conoscenza. Ma questo io penso opera attraverso giudizi, ed i giudizi sono possibili solo grazie alle categorie. Questo vuol dire, dunque, che noi possiamo pensare solo grazie alle categorie, e senza di esse nessun oggetto potrebbe essere pensato, ossia esistere per noi. Nulla è dunque pensabile senza le categorie dell’intelletto, così come nulla può essere percepito senza le forme a priori dello spazio e del tempo. L'io penso tuttavia non crea la realtà, ma si limita a conoscere – ossia ad ordinare secondo le categorie – una realtà che esiste prima di esso.

5.6. Gli schemi trascendentali

Fino ad ora abbiamo incontrato due cose: la sensibilità, con le sue forme a priori dello spazio e del tempo, e l'intelletto, con le sue categorie. Sensibilità ed intelletto sono diversi tra di loro, per cui sorge il problema: in che modo si passa dalla sensibilità all'intelletto? Occorre che ci sia un elemento mediatore, che faciliti e renda possibile il passaggio dall'una all'altro. Questo elemento per Kant è il tempo. In concetti sembrano astratti, ma noi possiamo concretizzarli, avvicinarli alla sensibilità pensandoli in modo temporale. Ad esempio, la categoria della comunanza può essere tradotta nella rappresentazione di due cose che esistono contemporaneamente, cioè nello stesso tempo. Questa traduzione intuitiva di una categoria attraverso il tempo si chiama schema trascendentale.

5.7. L'io legislatore della natura

Abbiamo detto che l’io non crea in nessun modo, per Kant, il mondo esterno, che si limita a percepire. Tuttavia, il fatto che il mondo sia percepito in un certo modo dipende interamente dall’io. Considerando la natura, vi troviamo delle regolarità che consentono di formulare delle leggi. Queste leggi però non appartengono alla natura stessa, ma all’io penso ed alle sue forme a priori. La validità della scienza della natura si fonda dunque su questa base: è il soggetto a dare alla natura quell'ordine che si esprime attraverso le leggi della scienza.

5.8. Il noumeno

Noi conosciamo il mondo attraverso la sensibilità e l’intelletto. Ma il mondo che conosciamo è il mondo in sé? Kant lo nega. Quello che conosciamo è il mondo come appare a noi, ossia il fenomeno. Oltre il fenomeno non possiamo andare, ossia non possiamo sapere come è il mondo in sé e per sé. Questo mondo in sé Kant lo chiama noumeno, ossia “cosa che si può pensare”, perché noi possiamo solo pensare che ci sia, ma non possiamo mai farne esperienza. La nostra conoscenza dunque ha dei limiti ben precisi. Noi ci limitiamo a conoscere la faccia del mondo che è rivolta verso di noi, per così dire, mentre ci è preclusa la conoscenza del mondo in sé. Da un lato Kant esalta il potere dell’intelletto umano, che dà leggi alla natura, dall’altra ci ricorda però che la nostra conoscenza ha dei limiti ben precisi.

5.9. La dialettica trascendentale

L’intelletto si applica ai dati dell’esperienza, ed in questo modo ci dà conoscenza certe, fondate e scientifiche. Ma noi abbiamo la tendenza ad andare oltre i dati dell’esperienza, a non rispettare i limiti che essa ci impone. L’intelletto che va oltre i dati sensibili Kant lo chiama ragione e lo paragona ad una colomba che voglia volare senza l'aria. La dialettica trascendentale studia questa pretesa della ragione di conoscere anche senza i dati dei sensi. In questo contesto, il termine dialettica indica una conoscenza illusoria.

La ragione pensa tre cose: l'anima, il mondo e Dio. Tutte e tre queste idee, per Kant, sono false ed illusorie.

Abbiamo visto che per Kant esiste l’io penso, che però non è mai per noi oggetto di esperienza, e quindi è impossibile applicare ad esso la categoria della sostanza. Pensare che esista un’anima immortale vuol dire andare contro ed oltre l’esperienza ed applicare all’io penso quella categoria di sostanza che può applicarsi invece solo a ciò di cui facciamo esperienza (agli oggetti), non al soggetto stesso.

Per quanto riguarda il mondo, Kant nota che noi facciamo sempre esperienza di singoli fenomeni e mai dell’intera realtà, ossia di tutti i fenomeni. Il fatto che il mondo sia una cosa di cui non facciamo esperienza, e dunque una idea illusoria, è dimostrato dalle antinomie in cui cade la metafisica nelle sue teorie sul mondo. Si pensa, ad esempio, che il mondo non abbia avuto inizio, mentre altri al contrario sostengono che ha avuto un inizio, eccetera.

C’è poi l’idea di Dio. Per Kant tutte le prove dell’esistenza di Dio sono false. La prova ontologica (Anselmo d’Aosta) sostiene che l’esistenza di Dio si può dedurre dal concetto stesso di Dio: se Dio è perfetto, allora deve esistere, perché se non esistesse sarebbe imperfetto. Kant, che come abbiamo visto si era occupato della questione già negli scritti precritici, risponde che qui c’è l’errore di dedurre l’esistenza di qualcosa dal suo concetto, mentre per dire che una cosa esiste dobbiamo constatare la sua esistenza attraverso l’esperienza. La prova cosmologica dice che se il mondo esiste, occorre che ci sia un Dio che ne sia la causa e l’abbia creato. In questo caso si ricorre alla categoria di causalità, che però per Kant vale solo per il mondo dei fenomeni, e non per una realtà che è oltre i fenomeni, come quella di Dio. C’è infine la prova fisico-teleologica. Secondo questa prova, l’esistenza di Dio è dimostrata dal fatto che il mondo è ordinato, razionale, e sembra perseguire degli scopi. Un mondo intelligente non può che essere creato da un Dio intelligente. Ma, obietta Kant, siamo sicuri che il mondo sia davvero ordinato? Esso appare tale a noi, ma non è detto che il nostro criterio di ordine e di razionalità sia di valore universale. Inoltre, la razionalità della natura potrebbe essere immanente, senza rimandare ad alcun Dio creatore.

Le idee di anima, di mondo e di Dio non sono dunque vere. Ma non per questo bisogna abbandonarle. Per Kant esse hanno una funzione regolativa. Pur non essendo vere, esse possono servire a guidare la nostra conoscenza e ci stimolano a cercare nella nostra esperienza una sempre maggiore unità. L’anima non esiste, ad esempio, ed è sbagliato parlare di anima; ma l’idea di anima ci spinge a cercare il legame che esiste tra tutti i fenomeni che costituiscono la nostra realtà interiore.

6. La Critica della ragion pratica

6.1. La ragione pura pratica

Nella Critica della ragione pratica Kant si occupa della morale, detta anche, appunto, ragione pratica. Ci sono due tipi di ragione pratica: una ragione pratica pura, ossia che opera indipendentemente dalla sensibilità, ed una ragione pratica empirica che opera partendo dalla sensibilità. Per Kant, la vera morale è quella che è indipendente dalla sensibilità, ossia la ragione pratica pura. Questa è la ragione per cui l'opera non si chiama Critica della ragione pura pratica: la pretesa della ragione pratica di essere pura non va criticata, perché è una pretesa legittima. Va criticata, invece, la pretesa della ragione teoretica (della conoscenza) di fare a meno della sensibilità e dell'esperienza.

6.2. Il problema dell'opera

L'etica, o ragione pratica, cerca di rispondere alla domanda sul bene, e di farlo in modo tale che la risposta sia universale, ossia valida per tutti. Kant è alla ricerca di una legge morale che sia universale ed incondizionata, vale a dire che sia capace di guidare l'essere umano senza farsi condizionare dalla sensibilità. L'ipotesi da cui parte Kant è che l'uomo possa agire in modo morale, ossia fare il bene, resistendo agli impulsi dei sensi ed imponendo anzi ad essi la legge morale. Questo non vuol dire però che l'essere umano sia indifferente agli impulsi e sia puramente razionale. Al contrario, in noi c'è sempre una lotta tra la ragione, che ci indica il bene, e gli impulsi che ci spingono verso il male. Questa lotta può concludersi anche con la vittoria degli impulsi, perché l'essere umano è imperfetto e limitato, benché sia sempre capace di seguire la ragione e il bene.

6.3. L'imperativo categorico

Quando noi agiamo, lo facciamo seguendo dei principi pratici, che possono essere massime o imperativi. Le massime sono dei principi validi soggettivamente, ossia soltanto per coloro che se le pongono. Una persona che sia stata offesa ad esempio può volersi vendicare, seguendo la massima che “bisogna vendicare le offese”; ma è una cosa che vale solo per lui, perché la massima non ha un valore universale (altri possono decidere di perdonare le offese). Gli imperativi invece sono validi per tutti.

Esistono due tipi di imperativi: ipotetici e categorici. Gli imperativi ipotetici prescrivono qualcosa in vista del raggiungimento di un fine; ad esempio: lavora se da vecchio non vuoi essere povero. In questo caso l'imperativo ha la forma del se... allora, e l'azione viene compiuta non per sé stessa, ma perché serve a raggiungere un fine. Gli imperativi categorici invece sono delle vere e proprie leggi che impongono di fare qualcosa perché è giusto farla, indipendentemente dalla sua utilità; anzi, impongono di farla anche se dovesse venircene un danno. La moralità vera è fatta di imperativi categorici, perché soltanto essi riescono a fare a meno del tutto della sensibilità e degli impulsi, e dunque conducono alla ragione pratica pura. Kant formula in tre modi questo imperativo categorico, che è il principio di base di tutta la sua etica.

La prima formulazione dice: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di legislazione universale”. Per comprendere se la nostra azione è buona o cattivo, dobbiamo chiederci se quella azione potrebbe essere considerata una legge obbligatoria del tutto. Poniamo che vogliamo rubare qualcosa. Cosa succederebbe se rubassero tutti? Si può vivere in una società in cui rubare sia legge? No. E allora rubare è male.

La seconda formulazione dice: “Agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo”. Questo vuol dire che non dobbiamo mai usare gli altri come mezzi per soddisfare il nostro egoismo, ma ne dobbiamo rispettare rigorosamente la dignità. Quando agiamo, dobbiamo dunque chiederci: quello che sto facendo rispetta la dignità delle persone? non le sto forse usando?

Le terza formulazione dice: “Agisci in modo tale che la tua volontà possa, in forza della sua massima, considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice”. Si tratta di una riproposizione della prima formulazione, che però evidenzia il ruolo e l'importanza della volontà.

6.4. Caratteristiche dell'etica kantiana

Kant non risponde alla domande sul bene indicando cosa, in concreto, è bene (e quindi cosa è male), ma fornendo un criterio generale che serve per individuare, di volta in volta, cosa è bene. Detto usando la terminologia filosofica, quella kantiana non è un'etica materiale, ma un'etica formale. Essere morali, per Kant, significa agire senza alcuno scopo utilitaristico, compiendo un'azione solo perché è doveroso farlo. Il dovere è l’essenza dell’etica. Una stessa azione può essere morale oppure no, a seconda dell'intenzione con la quale viene compiuta. Se io non rubo perché so che è sbagliato, e che è doveroso non rubare, la mia onestà è morale, ma se non rubo perché voglio essere apprezzato dagli altri, la mia azione è solo legale. Kant definisce legale ogni comportamento che esteriormente rispetta la legge morale, ma che in realtà nasconde uno scopo utilitaristico: non faccio il bene per puro dovere, ma per trarne qualche vantaggio, o per evitare qualche svantaggio. Per Kant a guidare le scelte morali dev'essere solo la ragione, imponendosi, come abbiamo visto, sulla sensibilità. Ne consegue che dall'orizzonte morale kantiano è esclusa ogni elemento emotivo. L'azione morale, per essere tale, deve essere inoltre autonoma, ossia scaturire dalla sola decisione della ragione. Kant rifiuta tutte le morali eteronome, ossia quelle morali che fanno derivare la scelta e l'individuazione del bene non dalla pura ragione, ma da fonti esterne a noi, come la società o la volontà di Dio, o esterne alla ragione, come il piacere.

6.5. I postulati della ragione pratica

Noi abbiamo il dovere di seguire la nostra ragione e l'imperativo categorico. Ma vivere moralmente non vuol dire essere felici. Sappiamo tutti che persone immorali spesso sono più felici delle persone buone. Dobbiamo dunque essere immorali per essere felici? Per risolvere questo problema non c'è, per Kant, che un modo: postulare che esista, oltre questa vita, un aldilà nel quale le persone buone potranno essere finalmente felici. Esistono per Kant una serie di postulati della ragione pratica, ossia di convinzioni che, anche se non sono dimostrabili razionalmente, sono necessarie per rendere possibile la vita morale. Il primo di questi postulati è quello dell'immortalità dell'anima. Abbiamo visto che Kant ritiene logicamente indimostrabile l'esistenza dell'anima. Eppure dobbiamo credere che esista un'anima immortale, se vogliamo essere morali. Nessuno può essere pienamente morale in questa vita, perché siamo esseri imperfetti, costantemente limitati dalla sensibilità. Dobbiamo pensare allora che esista una vita dopo la morte, che ci consenta di realizzare pienamente l'ideale della perfezione morale, ossia la santità. Ma non è possibile pensare ad una ricompensa nell'aldilà se non c'è un Dio che ricompensa. Dio è il secondo postulato della ragione pratica. Il terzo è quello della libertà. Noi possiamo agire moralmente solo se siamo liberi, solo cioè se abbiamo la possibilità di liberarsi dall'influenza della sensibilità e di imporre ad essa il dovere della ragione. Ma questa libertà non può essere dimostrata razionalmente, perché presuppone una auto-causalità (io sono causa di me stesso), mentre per Kant nel mondo dell'esperienza ogni cosa è causata da altro.

6.6. Il primato della ragion pratica

Nella Critica della ragione pura Kant dunque nega che si possa dimostrare l'idea di Dio e di anima. Nella Critica della ragion pratica recupera sia Dio che l'anima, con le altre verità religiose (l'esistenza dell'aldilà e il paradiso). In questo senso si parla di primato della ragione pratica: la morale consente di giustificare quelle verità religiose che la ragione teoretica considera inammissibili. È molto importante però tener presente che questo primato non implica in nessun modo che quelle su Dio e sull'anima siano conoscenza. Dio e l'anima restano inconoscibili ed indimostrabili. Kant sostiene soltanto che abbiamo bisogno di credere in Dio e nell'anima per essere pienamente morali. In questo modo il rapporto tradizionale tra morale e religione si rovescia. Non è la religione che conduce alla morale (Kant nega che l'etica fondata sui testi sacri o sulla volontà di Dio sia vera etica), ma è la morale che conduce alla religione: si diventa religiosi nella misura in cui si fa il bene seguendo esclusivamente la propria ragione. La pratica della ragione, in campo morale, conduce a ciò che è al di là della ragione.

7. La Critica del giudizio

7.1. Il giudizio estetico

L'esercizio del nostro intelletto consiste, come abbiamo visto, nel formulare giudizi. Il problema della prima Critica è quello di capire quali dei nostri giudizio sono fondati, e quindi possono darci conoscenze certe e scientifiche. Ma l'essere umano non vive solo di scienza. Ogni giorno, esprimiamo giudizi che riguardano, ad esempio, la bellezza di un'opera d'arte. Di che tipo di giudizio si tratta? Evidentemente non di giudizi scientifici. Nella Critica del giudizio (1790) Kant analizza questo tipo di giudizi, che chiama riflettenti, e distingue dai giudizi determinanti della prima Critica. Vediamo la differenza.

• Giudizi determinanti: sono i giudizi che determinano i loro oggetti attraverso le forme a priori della sensibilità e dell'intelletto. Questi giudizi, in altri termini, costruiscono i fenomeni.

• Giudizi riflettenti: sono giudizi che non costruiscono i fenomeni, ma riflettono su di essi e li interpretano secondo la nostra esigenza di armonia e di finalità. In altri termini, quando esprimiamo un giudizio di questo tipo, riflettiamo sull'armonia interna ai fenomeni e sull'armonia tra i fenomeni e noi.

Il giudizio riflettente è di due tipi, estetico e teleologico. Nel giudizio estetico noi definiamo qualcosa come bello o brutto. Ma cos'è il bello? Per Kant si può rispondere in quattro modi:

• È bello ciò che piace, ma questo piacere dev'essere privo di qualsiasi interesse. Le cose belle non son utili, non traiamo da loro un qualche vantaggio; le apprezziamo per sé stesse.

• È bello ciò che piace a tutti coloro che sono forniti di gusto; poiché il giudizio estetico non ha a che fare con la conoscenza, questa universalità ha un carattere sentimentale, non intellettuale.

• È bello ciò che mostra un'armonia che fa pensare che ci sia un fine, la ricerca di un ordine; ma questa ricerca non deve apparire evidente, ma spontanea: come se non ci fosse. Un'opera d'arte, che è stata creata dall'artista (seguendo un fine) deve sembrare invece una creazione naturale, come se non fosse opera umana. Al contrario, un paesaggio naturale appare bello quando sembra che ci sia dietro di esso una intenzionalità: quando sembra opera umana. Il fine deve sembrare assente dove c'è (nell'opera umana) e presente dove non c'è (nella natura).

• È bello ciò che suscita piacere in tutti, senza tuttavia che si possa spiegare razionalmente il perché di quel piacere. Tutti sentono che un fiore è bello, ma è difficile spiegare con la ragione perché è bello.

In generale, si può dire che la ragione per cui troviamo belle alcune cose è che esse riescono a suscitare dentro di noi una armonia tra due facoltà diverse, l'immaginazione e l'intelletto: l'immagine che vediamo o che evochiamo (ad esempio leggendo un romanzo o una poesia) risulta in accordo con le esigenze di ordine del nostro intelletto, e questo accordo suscita un senso di appagamento che è il risultato dell'accordo delle nostre stesse facoltà.

Però non solo ciò che mostra armonia ci suscita un piacere estetico. Possiamo provare piacere anche osservando una tempesta. In questo caso il sentimento suscitato in noi non è per Kant quello del bello, ma quello del sublime. In questo caso noi ci misuriamo con qualcosa che è più grande di noi, sia nel senso della grandezza (sublime matematico: si pensi alla sensazione che suscita una montagna) che nel senso della potenza (sublime dinamico: appunto la tempesta). Di fronte a queste realtà di sentiamo piccoli e deboli, e questo dovrebbe suscitarci una sensazione spiacevole. Al tempo stesso, però, sentiamo che noi, benché limitati e piccoli, siamo superiori a quelle forze, poiché a differenza della natura siamo in grado di seguire degli ideali e di avere una vita morale.

7.2. Il giudizio teleologico

Un secondo tipo di giudizio riflettente è il giudizio teleologico. Attraverso la scienza e la conoscenza intellettiva, noi giungiamo ad una serie di conoscenze certe sul mondo della natura. Ma alcune domande restano senza risposta. Perché esistono gli esseri viventi? A che scopo? Perché esiste la natura? Queste domande non possono trovare una risposta nella scienza, e tuttavia restano domande ineliminabili, che esprimono un bisogno di comprensione innato nell'essere umano. Attraverso i giudizi teleologici, noi interpretiamo la natura come un sistema che persegue degli scopi. Possiamo immaginare che il corpo degli esseri viventi sia stato creato per funzionare alla percezione e che tutta la natura sia ordinata in modo intelligente in vista di uno scopo, deciso da un Ente creatore. È fondamentale però tener presente che per Kant questi giudizi non hanno alcun valore conoscitivo. Noi siamo liberi di pensare così la natura, ma non vuol dire che davvero la natura persegua dei fini o sia stata creata da un Dio intelligente. Noi semplicemente viviamo come se (als ob) fosse così, perché è una nostra esigenza profonda.

8. L'uomo, la religione, la storia

Dentro ognuno di noi c'è un imperativo che comanda il bene ed il dovere. Non tutti, però, lo seguiamo. Anzi, a considerare la storia e la vita sociale, dovremmo concludere che le persone che seguono il dovere sono poche. Questo accade perché, come scrive Kant nell'opera La religione nei limiti della semplice ragione (1793), esiste dentro l'essere umano una tendenza a sottrarsi al dovere ed a compiere il male. L'uomo è libero di non fare il bene, ed è spesso incline al male. Questa inclinazione rappresenta quel male radicale che la religione cristiana chiama peccato, e che spiega con la caduta dell’Adamo. Anche se incline al male, l'uomo è tuttavia capace di fare il bene. Per Kant in ciò va ricercata l'unica vera religiosità. L'uomo è religioso nella misura in cui è morale; prega Dio facendo il bene. Ogni altra pratica religiosa è da considerarsi superstiziosa. Nessun rituale religioso ha valore: l'ideale di Kant è, come dice il titolo della sua opera, quello di una religione che si accorda pienamente con la ragione.

Della natura umana Kant si occupa anche nello scritto Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784). Come sosteneva Aristotele, l'essere umano è naturalmente socievole, ha la tendenza innata ad unirsi in società. Ma c'è nell'essere umano anche una tendenza opposta a contrapporsi agli altri ed a seguire il proprio egoismo. Kant parla di insocievole socievolezza dell'essere umano. Questa tendenza all'egoismo, apparentemente negativa, ha una funzione storica positiva, perché è cercando la ricchezza, il successo, il potere che l'essere umano si impegna e lavora, uscendo così dalla barbarie e costruendo la civiltà. Ma la condizione nella quale l'umanità può realizzare pienamente sé stessa è quella di un governo repubblicano, che consenta l'accordo e la coesistenza delle singole libertà sotto il dominio delle leggi.

Nel saggio Per la pace perpetua (1795) Kant sostiene che la pace può essere raggiunta soltanto grazie ad una federazione di Stati repubblicani che ricorrano, in caso di conflitto, ad un parlamento comune.

Testi

1. Lo spazio
2. Sensibilità e intelletto
3. L'azione dell'intelletto
4. Il problema della deduzione trascendentale

Focus

1. Un ritratto di Kant
2. Kant e il sesso
3. Kant e gli animali

 

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.