[Michelstaedter]

Le cose che ci attorniano, con il loro sapore, da un lato ci sospingono verso il futuro, assicurandoci la continuazione del nostro organismo, dall’altro costituiscono un sostegno esterno della nostra identità.

Un bue non becca mai grano ma rumina sempre fieno, né del fieno si prende mai un’indigestione: così lo guida il piacere. Il grano non gli piace, il fieno invece gli è dolce, ma gli è dolce finché gli conviene, e conveniente gli è ciò che gli piace finché gli piace. Nella dolcezza parla la voce di tutte le altre determinazioni che dicono quella cosa in quella misura necessaria alla sua continuazione. Nel sapore presente del fieno c’è la dolce promessa del suo futuro, vivono le determinazioni delle altre cose, la previsione del dato avvenire. Pel sapore esso sa ciò che è per lui buono,1 ciò che rende possibile la sua continuazione, che avvicina via via l’effettuazione del giro continuo delle sue necessità. Nel sapore è la presenza di tutta la sua persona. Questo sapore accompagna ogni atto della vita organica. Per cui dice l’Ecclesiaste (III, 12): “E vidi che non v’è bene per loro (secondo loro) se non in quanto ne godano e faccia loro bene nella loro vita; ed anche se nel mangiare, se nel bere e in ogni sua attività l’uomo vede il bene, è dato questo a lui da dio”.

Così muovendosi nel giro delle cose che gli fanno piacere, l’uomo si gira sul pernio che dal dio gli è dato (προϋπάρχει) e cura la propria continuazione senza preoccuparsene, perché il piacere preoccupa il futuro per lui.

Ogni cosa ha per lui questo dolce sapore, ch’egli la sente sua perché utile alla sua continuazione, e in ognuna con la sua potenza affermandosi egli ne ritrae sempre l’adulazione “tu sei“.

Così che volta per volta nell’attualità della sua affermazione egli si sente superiore l’attimo presente e alla relazione che a quell’attimo appartiene; e se egli ora fa questo e poi farà quello, ora è qui poi andrà là; egli si sente sempre uguale in tempi e cose diverse: egli dice “io sono“.

E nello stesso tempo le sue cose che lo attorniano e aspettano il suo futuro, sono l’unica realtà assoluta indiscutibile – col suo bene e il suo male, il meglio e il peggio. Egli non dice: “questo è per me”, ma “questo è”; non dice: “questo mi piace”, ma “è buono”: perché appunto l’io per cui la cosa è od è buona, è la sua coscienza, il suo piacere, la sua attualità, che per lui è ferma assoluta fuori del tempo. È lui ed è il mondo. E le cose del mondo sono buone o cattive, utili o dannose; egli sa “rifiutar le cattive e sceglier le buone” (Isaia), poiché la sua attualità ha nel piacere (o dispiacere) organizzata la previsione di ciò che conviene alla continuazione dell’organismo, che crea da lontano la futura vicinanza necessaria alla futura affermazione. – Perciò le cose non gli sono indifferenti ma giudicabili in riguardo a un fine. Questo fine che è nella sua coscienza gli è indiscutibile, fermo, luminoso fra le cose indifferenti; quello che egli ogni volta fa, non è fatto a caso, ma certo e ragionevolmente subordinato al fine. Come egli dice “io sono”, così dice “io so quello che fo perché lo fo; non agisco a caso ma con piena coscienza e persuasione”.

È cosi che ciò che vive si persuade esser vita la qualunque vita che vive.

Note

1 Sapio = ho sapore = so. [Nota di Michelstaedter.]

Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Formiggini, Genova 1913, pp. 13-15. Pubblico dominio.