Etica evoluzionista

Illustrazione da from Thomas: "Huxley’s Evidence as to Man’s Place in Nature" (1863). Wellcome Library, London.

Introduzione

Come principale esperto di formiche del mondo, Edward Wilson avrebbe potuto condurre una vita accademica tranquilla e gioiosa. Ma nel suo libro Sociobiologia del 1975, Wilson estese il suo lavoro sulle spiegazioni evolutive del comportamento sociale — che lo aiutò molto a capire il comportamento di animali sociali come le formiche, le api e i cavalli — al comportamento umano. Come scrisse in seguito, tutte le 575 pagine del libro furono ben accolte tranne l'ultimo, breve capitolo sull'evoluzione umana (Wilson 2002, vi). In quel capitolo, Wilson suggerisce che l'evoluzione potrebbe spiegare il comportamento morale negli esseri umani: gli esseri umani sono animali morali e prosociali perché essere morali e prosociali aveva dei vantaggi evolutivi. A dire il vero, affermava, "gli scienziati e gli umanisti dovrebbero considerare insieme la possibilità che sia giunto il momento che l'etica venga temporaneamente tolta dalle mani dei filosofi e biologizzata" (Wilson 2002, 562).

Il suggerimento di Wilson ha suscitato indignazione ben oltre la torre d'avorio accademica. Molti hanno associato la teoria evoluzionista a crude affermazioni sulla "sopravvivenza del più forte", che alcuni regimi hanno usato per giustificare le guerre e l'eutanasia, e hanno temuto che l'approccio all'etica dalla prospettiva evolutiva avrebbe giustificato il razzismo, il sessismo e l'imperialismo 1. In effetti, la vita accademica di Wilson dopo la pubblicazione del libro fu tutt'altro che tranquilla; i suoi discorsi erano controversi, contrastati dai manifestanti, e ad una conferenza nel 1978 un oppositore espresse addirittura il suo sgomento svuotando una tanica d'acqua su di lui.

Tuttavia, guardando oltre l'uscita sensazionalistica di Wilson di "togliere l'etica dalle mani dei filosofi", troviamo un'affermazione più equilibrata sulla metodologia in etica (Wilson 2002, 562). Wilson chiedeva di studiare l'etica proprio come si studiano altri fenomeni sociali, psicologici o biologici. In altre parole, proponeva un cosiddetto approccio naturalistico alle questioni etiche (che sarà spiegato in dettaglio più avanti). Naturalmente, possiamo porre molte domande diverse sull'etica e, come vedremo, alcune sono più adatte ad un approccio naturalistico di altre. Ma il dibattito sulla legittimità dell'etica evoluzionista si è in gran parte placato, a favore della proposta di Wilson. Molti aspetti dell'etica evolutiva sono fiorenti e hanno portato a entusiasmanti programmi di ricerca che hanno fatto enormi progressi dal libro di Wilson. E Wilson, statene certi, è uscito dalla controversia incoraggiato e indenne. Sembra che peraltro abbia condotto una gioiosa vita accademica.

Questo capitolo introduce prima gli approcci naturalistici all'etica più in generale e distingue il naturalismo etico metodologico (l'obiettivo di questo capitolo) dal naturalismo etico metafisico. La seconda parte discute poi l'etica evolutiva come una variante specifica del naturalismo etico metodologico. Dopo aver introdotto i concetti della teoria evolutiva che sono rilevanti per l'etica evolutiva, abbozzerò la storia dell'etica evolutiva, che offre una lezione interessante sul perché è diventata un argomento controverso, e poi mi concentrerò su quattro questioni centrali sull'etica che possono essere affrontate dall'interno della cornice dell'etica evolutiva:

  1. Cosa dovremmo fare?
  2. Perché siamo morali?
  3. Esistono fatti morali?
  4. Possiamo avere credenze morali giustificate e conoscenza morale?

Due approcci al naturalismo in etica: metodologico e metafisico

Wilson sostiene il naturalismo etico metodologico, che è principalmente un punto di vista riguardante il modo migliore per studiare l'etica. I naturalisti in questo senso sostengono che almeno alcune questioni etiche possono essere studiate proprio come cerchiamo di rispondere a domande in altri campi dell'indagine scientifica. L'etica, in altre parole, è in continuità con la scienza.

Un impegno centrale del naturalismo etico metodologico è quello di allargare la rete delle nostre fonti di indagine etica. Per esempio, possiamo usare fonti antropologiche, psicologiche, biologiche e letterarie per informare la nostra teorizzazione sull'etica2. Una tale moltitudine di fonti contrasta con il modo più tradizionale di fare filosofia morale attraverso l'analisi concettuale. Quest’ultimo è un metodo spesso usato dai filosofi per indagare le questioni etiche; implica una riflessione su quando un concetto, come "bontà" o "libertà", si applica e come si relaziona con altri concetti. Usare l'analisi concettuale per capire cos'è la bontà morale, per esempio, significa analizzare le condizioni in cui si applica il concetto di "bontà morale". L'analisi concettuale è guidata dalla propria comprensione e dalle proprie intuizioni sul concetto in questione. Poiché gran parte della filosofia accademica studiata dai filosofi nordamericani ed europei è stata elaborata, e lo è ancora, da nordamericani ed europei (nonostante il fatto che la filosofia accademica venga fatta anche in altre parti del mondo), molte analisi concettuali esistenti dei termini etici sono in realtà analisi concettuali di concetti occidentali. Psicologi e filosofi hanno invece sostenuto che le intuizioni sui concetti (etici) variano abbastanza significativamente3. Se questo è vero, ciò costituisce un un problema nella misura in cui vogliamo imparare cosa sia la bontà morale, e non cosa sia il concetto di bontà morale degli accademici occidentali. Quindi il naturalista ha un buon motivo per prendere in considerazione qualcosa di diverso da semplici intuizioni (prevalentemente occidentali). Il pensiero evoluzionista è una di queste fonti, e lo tratteremo in dettaglio più avanti.

In contrasto con il naturalismo metodologico, che è principalmente una visione su come condurre un'indagine etica, il naturalismo etico metafisico è principalmente una visione riguardante ciò che esiste. Entrambi i punti di vista sono correlati ma distinti, come illustra l'analogia con i fantasmi. Una cosa sarebbe scoprire in modo scientifico perché la gente crede nei fantasmi, il che sarebbe il naturalismo metodologico, ma un'altra è dire in modo scientifico cosa sono i fantasmi, che sarebbe l'obiettivo del naturalista metafisico 4.

I naturalisti metafisici sostengono che non ci sono entità non naturali o soprannaturali in questo mondo. Quando si traccia una linea tra il "naturale" e il resto, quest'ultimo include Dio o gli dei, i fantasmi, gli spiriti umani o l'anima, che non è parte del corpo fisico. Per molti filosofi la moralità sembra rientrare nel lato non naturale o soprannaturale delle cose. Una ragione è che i fatti morali sembrano abbastanza diversi dai fatti ordinari, per esempio, il tempo o la geologia, a causa della loro forza normativa. Se affermo un fatto ordinario come "Mitt è andato a fare la spesa" o "l'oro è più denso del ferro", descrivo uno stato del mondo, ma non sembro impegnato ad agire in un modo o nell'altro. Al contrario, se dico "è moralmente sbagliato che Mitt abbia rubato i soldi", non solo descrivo il mondo, ma sembro anche impegnarmi ad agire in un certo modo. Suona strano dire, per esempio, che "è moralmente sbagliato che Mitt abbia rubato i soldi, ma non dovremmo fare nulla al riguardo". I fatti morali, sembra, hanno una certa prescrittività intrinseca, e questa è una delle ragioni per cui sembra che essi non possano essere ridotti direttamente ai fatti naturali. (I fatti morali, come il fatto che uccidere è sbagliato, non solo descrivono il mondo come gli altri fatti, ma danno anche ragioni per agire, o prescrivono certe direzioni d'azione).

Come soluzione, alcuni naturalisti metafisici abbandonano del tutto i fatti morali. Ritenere che non esistano fatti morali è naturalmente un modo semplice per soddisfare le proprie aspirazioni naturalistiche5. Di solito, tuttavia, quando i filosofi morali parlano di naturalismo morale, hanno in mente una versione di naturalismo etico metafisico che si esprime in due tesi. Prima: i fatti morali esistono. Secondo: i fatti morali possono essere descritti in termini puramente naturali 6. Per esempio, consideriamo la teoria morale dell'utilitarismo (vedi capitolo 5). Una versione semplice dell'utilitarismo sostiene che l'unica cosa che abbia valore intrinseco è la felicità e che il nostro unico obbligo è quello di massimizzare la felicità. Da questo punto di vista, le proprietà morali si riducono alla proprietà di essere favorevoli alla felicità, che è una qualità psicologica che si adatta abbastanza bene alla visione del mondo fornita dalla scienza 7. Il principale progetto filosofico dei naturalisti metafisici è quello di spiegare in che modo i fatti morali si relazionino ai fatti naturali, il che solleva alcune questioni affascinanti 8. Ai fini del presente discorso, è importante notare che si può essere un naturalista metodologico senza condividere una delle due forme di naturalismo metafisico o il naturalismo metafisico in generale. Ciò significa che si può abbracciare il naturalismo metodologico ma negare che ci siano solo fatti naturali. D'ora in poi ci concentreremo sul naturalismo metodologico, e nella prossima sezione vedremo come l'etica evolutiva sia un'istanza particolare del naturalismo etico metodologico.

Etica evoluzionista come approccio metodologico al naturalismo in etica

Teoria evoluzionista ed etica

L'etica evoluzionista prende in considerazione i risultati della psicologia evoluzionista umana, un campo di studio che esplora come le forze evolutive abbiano contribuito a plasmare non solo il modo in cui gli esseri umani funzionano e il nostro aspetto (ciò che i biologi evolutivi chiamano il "fenotipo" umano), ma anche il modo in cui ci comportiamo, sentiamo e pensiamo 9. L'etica evoluzionista è quindi un modo in cui possiamo allargare la rete di fonti che informano l'indagine etica.

La stessa psicologia evoluzionisa si basa sulla teoria dell'evoluzione per selezione naturale applicata agli esseri umani, descritta per la prima volta da Charles Darwin nel 1871 nel suo libro L'origine dell'uomo. In questo libro Darwin sosteneva che noi esseri umani siamo i discendenti di un "quadrupede peloso, dotato di coda e orecchie appuntite, probabilmente arboricolo nelle sue abitudini, e abitante del Vecchio Mondo" (Darwin 1871, 389).

La teoria di Darwin descrive la selezione naturale come la sopravvivenza e la riproduzione differenziale degli individui dovuta a differenze nel fenotipo. La selezione naturale è un meccanismo chiave dell'evoluzione, il cambiamento dei tratti ereditabili di una popolazione di individui nel tempo. La selezione naturale funziona in modo simile alla selezione artificiale. Prendiamo un allevatore di cani, per esempio, che selezioni solo cani docili da allevare. Nel corso di più generazioni, i cani che alleva diventeranno sempre più docili. La differenza principale tra la selezione artificiale e la selezione naturale è che la selezione naturale non ha un "selettore". Invece, le condizioni ambientali fanno sì che alcuni fenotipi (e di conseguenza, i loro genotipi) siano in grado di sopravvivere e riprodursi meglio rispetto ai loro concorrenti. Gli organismi che sono meglio adattati all'ambiente, forse attraverso mutazioni casuali del loro codice genetico, si dice che abbiano una maggiore capacità di adattamento in quanto hanno più possibilità di trasmettere i loro geni. Così, nel tempo, i cambiamenti che migliorano la capacità di adattamento nel genotipo si diffondono nella generazione successiva. La teoria dell'evoluzione per selezione naturale fornisce il punto di partenza per l'etica evoluzionista, come vedremo nella prossima sezione.

Cosa dovremmo fare?

Quando Darwin pubblicò L'origine dell'uomo, la gente iniziò immediatamente a pensare alle relazioni tra la sua teoria dell'evoluzione umana e l'etica. Uno dei primi importanti sostenitori di una teoria etica ispirata alla teoria evolutiva fu Herbert Spencer. Spencer, nato nel 1820 in Inghilterra, sosteneva che la teoria evolutiva di Darwin non solo spiegava ma anche giustificava il comportamento morale. Divenne noto come il più importante difensore del ramo dell'etica evoluzionista che tenta di occuparsi delle risposte alla domanda su cosa dovremmo fare (ne parleremo più avanti), e fu una figura chiave nel divulgare le idee di Darwin applicate allo studio dell'etica. Un ricordo di Frederick Pollock, che ha studiato all'Università di Cambridge in Inghilterra durante il culmine della popolarità di Spencer, illustra bene l'entusiasmo con cui molti adottarono il nuovo modo di pensare l'etica:

Ci sembrava di cavalcare trionfanti su un oceano di nuova vita e di possibilità illimitate. La selezione naturale doveva essere la chiave dell'universo; ci aspettavamo che risolvesse tutti gli enigmi e conciliasse tutte le contraddizioni. Tra le altre cose doveva darci un nuovo sistema di etica, combinando l'esattezza dell'utilitarista con gli ideali poetici del trascendentalista. Non dovevamo solo credere gioiosamente nella sopravvivenza del più adatto, ma prendere una parte attiva e consapevole nel rendere noi stessi più adatti. (Clifford 1879, 33)

Il programma di ricerca ispirato da Spencer fornisce una lezione importante sulle insidie dell'etica evolutiva. I seguaci di Spencer pensavano che la teoria evolutiva potesse dimostrare che certi principi o regole morali sono giustificati. Ricordiamo una delle premesse fondamentali della teoria evoluzionisa sul ruolo delle differenze individuali nella selezione naturale: i fenotipi adatti sopravvivono e si riproducono di più o meglio dei fenotipi non adatti. Per questo motivo, molti hanno pensato che scoprire ciò che ha successo evolutivamente ci mostri ciò che è moralmente buono. La teoria di Darwin è stata, erroneamente, presa come una giustificazione per la convinzione che sia giusto che il forte escluda il debole e che l'unica speranza di miglioramento umano risieda nell'allevamento selettivo.10

Darwinismo sociale
Carrie Buck era una paziente della "Colonia dello Stato della Virginia per gli epilettici e i deficienti", come veniva chiamata all'epoca. Dopo aver constatato che era "il probabile genitore potenziale di una prole socialmente inadeguata, ugualmente afflitta, che può essere sterilizzata sessualmente senza danno per la sua salute generale, e che il suo benessere e quello della società sarebbero stati promossi dalla sua sterilizzazione", la Corte stabilì che poteva essere sterilizzata senza il suo consenso (Buck contro Bell 274, U.S. 200, [1927]). Nel giustificare la sentenza, il giudice Oliver Wendell Holmes ha fece la famigerata affermazione che "tre generazioni di imbecilli sono sufficienti" (Doerr 2009).
La sentenza della Corte cita il bene comune e la presunta incapacità di Carrie Buck di contribuire ad esso, come giustificazione per la sentenza. Implicitamente, la Corte assume che le persone "improduttive", in qualsiasi misura, abbiano meno diritti delle persone "produttive". Tali presupposti erano alla base di molti programmi di eugenetica involontaria, che miravano a migliorare la qualità genetica della popolazione umana controllando e manipolando la riproduzione.
I programmi eugenetici sono espressioni di un'interpretazione errata e fallace della teoria evolutiva, che è stata conosciuta come "darwinismo sociale". I programmi eugenetici erano diffusi all'inizio del ventesimo secolo, e molti erano esplicitamente basati su affermazioni derivate dalla teoria evoluzionista, come il fatto che solo i forti dovrebbero sopravvivere (Paul 2006).

Tuttavia, tale pensiero tradisce una fallacia argomentativa conosciuta come "appello alla natura". Per esempio, sostenere che l'uso dei contraccettivi è moralmente sbagliato perché impediscono l'esito "naturale" del rapporto sessuale o che gli uomini non dovrebbero fare i lavori domestici perché non è nella loro natura sono appelli alla natura. Gli appelli alla natura possono essere fallaci nell'identificare erroneamente qualcosa come "naturale" — l'esempio degli uomini che fanno i lavori domestici lo illustra. Gli appelli alla natura sono fallaci anche in senso strettamente logico, perché fanno un passo illegittimo da è a deve. L'illegittimità di derivare un dover essere da un essere è stata sottolineata dal filosofo scozzese David Hume, e possiamo chiamare il divieto di farlo legge di Hume:

In ogni sistema morale che ho incontrato finora, ho sempre osservato che l'autore procede per un po' di tempo nel modo ordinario di ragionare, e stabilisce l'essere di un Dio o fa osservazioni riguardanti le cose umane; improvvisamente sono sorpreso di scoprire che invece delle solite copule è e non è, incontro solo proposizioni collegate con un deve e un non deve. Questo cambiamento è impercettibile; ma è, tuttavia, della massima importanza. (Hume [1738] 2007, 302)

Hume deplora l'inspiegabile, impercettibile cambiamento da è a deve in un argomento morale, e tali passaggi impercettibili e illegittimi erano abbondanti in alcuni degli argomenti dei primi sostenitori dell'etica evolutiva. Il problema era che Spencer e i suoi seguaci cercavano di derivare principi morali direttamente dalle intuizioni evolutive. La feroce opposizione al suggerimento di Wilson riflette in parte la storia dell'etica evolutiva, poiché la gente temeva i tentativi più rozzi di derivare un dover essere da un essere.

Storicamente, la fine dei primi approcci all'etica evolutiva è legata al filosofo britannico G. E. Moore, che effettivamente mise fine ai giorni d'oro del progetto di Spencer nel 1903. L'argomento di Moore fornisce un'altra obiezione istruttiva all'etica evolutiva. Moore accusò Spencer e i suoi seguaci di commettere quella che chiamò la "fallacia naturalistica" (Moore [1903] 1988, 28). Moore era interessato alla definizione di "bene" e sosteneva che poiché il "bene" è una proprietà semplice, non può essere definito delineando le sue proprietà più basilari. Quindi, identificare il "bene" con "ciò che è più evoluto", come fece Spencer, significava commettere la fallacia naturalistica. L'impatto di ciò che possiamo chiamare "la sfida di Moore" è stato devastante per l'etica evolutiva. Più di novant'anni dopo Moore, il filosofo Michael Ruse osserva che "è stato sufficiente per lo studente o la studentessa mormorare la magica frase 'fallacia naturalistica' per poi passare alla domanda successiva, con la certezza di aver ottenuto il massimo dei voti all'esame" (Ruse 1995, 220).

Qualcosa bisogna ancora dire sia sulla forza della legge di Hume che sulla sfida di Moore in particolare. La morale a questo punto è che per avvicinarsi alle questioni normative riguardanti ciò che dovremmo fare dalla prospettiva dell'etica evolutiva occorre affrontare entrambe le sfide. La lezione del primo secolo di etica evoluzionista è che le possibilità di derivare principi normativi dalla teoria evolutiva sono deboli.

Tuttavia, è importante riconoscere che l'etica evolutiva può ancora avere implicazioni riguardo a che dovremmo fare, dicendoci dove si applicano i principi morali. Per illustrare la differenza tra stabilire regole morali e stabilire dove si applicano le regole morali, consideriamo le norme sulla colpa. Una cosa è stabilire la norma morale che si è biasimevoli se si causa un danno o un'offesa quando si sarebbe potuto fare altrimenti, e un'altra è stabilire, in un caso specifico, se Peter è biasimevole per aver usato un linguaggio scurrile che ha offeso alcune persone: dopo tutto, potrebbe avere la sindrome di Tourette, nel qual caso non avrebbe potuto fare altrimenti. Il progetto di scoprire di più sulle caratteristiche che sono rilevanti per la valutazione morale, come la psicologia, è quindi di cruciale importanza per scoprire quando si applicano le regole morali (e quindi quali cose specifiche dovremmo fare), anche se non stabilisce le regole morali stesse. Questo è un autentico progetto metodologico di etica naturalistica. Inoltre, l'etica evoluzionista può essere applicata molto fruttuosamente ad altre questioni rilevanti all'interno dell'etica, come vedremo nelle prossime sezioni.

Perché siamo morali?

Gli esseri umani sono sorprendentemente prosociali rispetto agli altri animali. La primatologa Sarah Hrdy lo illustra bene:

Ogni anno 1,6 miliardi di passeggeri volano verso destinazioni in tutto il mondo. Pazientemente ci mettiamo in fila per essere controllati e perquisiti da qualcuno che non abbiamo mai visto prima. Saliamo a bordo di un cilindro di alluminio e stipiamo i nostri corpi in stretti sedili, gomito a gomito, accomodandoci l'un l'altro per tutto il tempo necessario al volo. Con cenni e sorrisi rassegnati, i passeggeri stabiliscono un contatto visivo e poi cedono ai ritardatari che si spingono oltre. Quando un giovane che indossa uno zaino mi colpisce con esso mentre si alza per stipare il suo armamentario in eccesso in uno scomparto in alto, invece di fare una smorfia o digrignare i denti, sorrido (debolmente), mascherando la mia irritazione....Non riesco a non chiedermi cosa accadrebbe se i miei compagni di viaggio umani si trasformassero improvvisamente in un'altra specie di scimmia. E se viaggiassi con un gruppo di scimpanzé? Ognuno di noi sarebbe fortunato a sbarcare con tutte e dieci le dita delle mani e dei piedi ancora attaccate, con il bambino che respira ancora e non si è fatto male. Lobi delle orecchie insanguinati e altre appendici sarebbero sparsi nei corridoi. Comprimere così tanti estranei altamente impulsivi in uno spazio ristretto sarebbe una ricetta per il caos. (Hrdy 2011, 1-4)

Quello che Hrdy vuole dire è che gli esseri umani sono una specie morale, non nel senso che tutti noi siamo moralmente buoni (alcuni sono truffatori, in fondo) ma nel senso che gli adulti normalmente funzionanti sono capaci di seguire le regole scritte e non scritte della società in modo che tutti possiamo andare d'accordo. È importante notare che a volte seguiamo tali regole anche in assenza di minacce credibili di sanzioni: a volte le persone restituiscono il portafoglio perso, non imbrogliano anche se potrebbero farla franca, e decidono di aiutare persone che vivono in paesi lontani. E i bambini umani sono straordinariamente in sintonia con i segnali sociali — niente li interessa più degli altri esseri umani, e sembrano essere molto interessati alla correttezza e ad altre regole che potremmo classificare come morali. Ma perché siamo morali? Il filosofo Immanuel Kant lo attribuì notoriamente a una capacità innata:

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. (Kant [1788] 2017, 288)

Fare riferimento solo al nostro senso morale, tuttavia, non ci porta molto avanti verso una risposta. Perché abbiamo un tale senso morale? Dopo tutto, non sono solo i filosofi morali a comportarsi in modo rispettoso e non egoistico sugli aerei. Gli esempi di questo comportamento vanno dal banale, come il comportamento onesto in circostanze in cui sarebbe impossibile rilevare un imbroglio, al drastico, come le persone che sacrificano la loro vita per gli altri. Come può essersi evoluto un tale comportamento?

L'etica evoluzionista in senso descrittivo fornisce alcune risposte. L'ipotesi è che la moralità sia uno strumento di cooperazione. Essere in grado di seguire le regole, di interiorizzarle e di attenersi ad esse anche se è contro i propri interessi immediati è ciò che rende la moralità qualcosa che può essere utile da una prospettiva evolutiva.

Ci sono due ipotesi in competizione. La prima assume una visione "dal punto di vista del gene" della selezione naturale (Dawkins 2006). Secondo questa visione, la selezione naturale avviene solo a livello di singoli organismi. Metaforicamente parlando, pensate al vostro corpo e ai tratti che lo rendono attraente per i potenziali compagni, come un veicolo per i vostri geni per replicarsi nella generazione successiva. Quindi, per offrire una spiegazione evolutiva di un certo tratto, dobbiamo capire perché avere quel tratto avrebbe portato l'organismo a diffondere maggiormente i suoi geni nella generazione successiva. A prima vista, il punto di vista del gene rende sconcertante il motivo per cui un comportamento come il sacrificio in guerra si sarebbe evoluto. In che modo sacrificarsi aiuterebbe a diffondere i propri geni nella generazione successiva? Il biologo Richard Hamilton ha sottolineato che il comportamento verso i nostri parenti sarebbe benefico anche dal punto di vista di un gene egoista, perché condividiamo molti geni con i nostri parenti (Hamilton 1963). Per esempio, aiutare vostro fratello o vostra sorella è benefico dal punto di vista dei tuoi geni, perché condivididete il 50% dei vostri geni con vostro fratello. Naturalmente, ci comportiamo moralmente anche verso persone al di fuori della nostra famiglia, e il cosiddetto altruismo reciproco aiuta a spiegare come tale comportamento possa essersi evoluto (Trivers 1971). Anche se due individui potrebbero essere geneticamente non imparentati, è conveniente per loro beneficiare l'altro finché il favore viene restituito in futuro, in modo che, nel lungo periodo, entrambi gli organismi godano di benefici individuali di adattamento. Quindi, dal punto di vista del gene, le nostre credenze in obblighi e doveri, la nostra capacità di provare empatia verso gli altri, di capire le loro intenzioni, e così via, è vista come un prodotto di pressioni selettive a livello individuale.

I sostenitori delle teorie selettive di gruppo hanno una prospettiva diversa sull'evoluzione della moralità. Secondo questo punto di vista, la selezione naturale si verifica anche a livello di gruppi (invece che solo a livello di organismi individuali). Quanti sostengono la selezione di gruppo non negano il ruolo della selezione a livello individuale, ma sottolineano che la selezione di gruppo è un ingrediente chiave nell'evoluzione della moralità. Con l'intensificarsi della competizione per le risorse tra gruppi di cacciatori-raccoglitori circa 150.000 anni fa, la coesione di gruppo e la cooperazione tra i membri del gruppo divenne un fattore importante.11 I gruppi con individui più cooperativi hanno una posizione migliore in una simile lotta e, come abbiamo visto, la capacità di seguire regole morali può essere considerato un modo per aumentare la cooperazione. Man mano che i gruppi con individui più cooperativi superavano i gruppi con individui meno cooperativi, la popolazione umana, in generale, divenne sempre più in sintonia con il comportamento cooperativo, e questo è il motivo per cui gli esseri umani hanno iniziato a sviluppare la psicologia morale che ci caratterizza oggi come animali morali.

Ci sono ancora molte questioni aperte tra questi due campi, e molte riguardano gli eventi, i processi o i meccanismi centrali che hanno permesso l'evoluzione della moralità (si veda il box Evoluzione culturale). Se non altro, l'etica evolutiva come progetto descrittivo aiuta a spiegare le origini di alcuni dei fondamenti della moralità.

Evoluzione culturale
I tabù sono interessanti e simili alle norme morali: sono vincolanti e non ammettono eccezioni. L'antropologo John Henrich sostiene che i tabù illustrano come la cultura abbia giocato un ruolo importante nella nostra storia evolutiva (Henrich 2016). Ad esempio, per gli abitanti di sesso femminile dell'isola di Yasawa (Fiji) è tabù mangiare i pesci più grandi come le murene, i barracuda o gli squali quando sono incinte. Il tabù è basato sulla tradizione e sulle credenze religiose e aderire al tabù sembra una costrizione significativa perché i pesci oggetto di tabù costituiscono una grande parte della dieta ordinaria della maggior parte degli abitanti dell'isola di Yasawa, comprese le donne incinte.
Perché le donne incinte di Yasawa rimuovono una così importante fonte di calorie dalla loro dieta? La risposta breve è che le loro credenze trasmesse culturalmente dicono loro di farlo. Ma anche la medicina occidentale può confermare la bontà di questa pratica. Eliminando il pesce grosso dal loro menu, le donne incinte corrono un rischio minore di avvelenamento da ciguatera. La tossina della ciguatera è prodotta da un microrganismo marino e poiché viene mangiato da pesci piccoli, e questi da pesci ancora più grandi, la tossina prodotta dal microrganismo può raggiungere livelli pericolosi in pesci grandi come il barracuda (Henrich 2016, 128).
Le norme sul cibo sono trasmesse socio-culturalmente e l'antropologo Joseph Henrich usa il caso del pesce-tabù per dimostrare che la cultura ha giocato un ruolo cruciale nell'evoluzione degli umani e della moralità umana (Henrich 2016, 100-102). Pensate alla cultura come a un insieme di regole e modi di fare espliciti o impliciti. La cultura in questo senso è intangibile e tuttavia parte del nostro ambiente tangibile: se violiamo una regola implicita, gli altri potrebbero punirci per questo. Secondo Henrich, "l'evoluzione culturale ha avviato un processo di autodomesticazione, spingendo l'evoluzione genetica a renderci prosociali, docili, seguaci delle regole che si aspettano un mondo governato da norme sociali monitorate e fatte rispettare dalle comunità (Henrich 2016, 5).
Se la cultura può guidare l'evoluzione genetica sotto forma di tabù sul cibo velenoso, essa può anche costruire un ambiente che richiede agli individui di essere in sintonia con le regole sociali e quindi favorisce gli individui che sono meglio in grado di seguire le regole. La cultura potrebbe quindi essere una componente importante nell'evoluzione della moralità.

Esistono fatti morali?

Fino ad ora ci siamo occupati del modo in cui l'etica evoluzionista risponde alle domande su cosa dovremmo fare e su perché siamo esseri morali. Un insieme correlato di domande sull'etica sono le domande metaetiche, che riguardano il significato dei termini morali, i nostri modi di ottenere la conoscenza dei fatti morali e la natura degli stessi. In altre parole, oltre a pensare a come dovremmo vivere e da dove viene il nostro senso morale, possiamo anche chiedere cosa significa dare una particolare risposta a quella domanda, come potremmo arrivare a conoscere la risposta e se la risposta sarebbe un dato di fatto o un'opinione.

Molti libri e articoli di filosofia morale iniziano con l'osservazione che i giudizi morali sembrano essere oggettivamente veri e l'affermazione che questo è il modo in cui anche i non filosofi pensano alla moralità. Per esempio, Michael Smith scrive

Sembriamo pensare che le domande morali abbiano risposte corrette; che le risposte corrette siano rese corrette da fatti morali oggettivi; che i fatti morali siano interamente determinati dalle circostanze; e che, impegnandoci in conversazioni e argomentazioni morali, possiamo scoprire quali sono questi fatti oggettivi. (Smith 1994, 6)

Ma come abbiamo visto sopra, la teoria evolutiva spiega perché dovremmo pensare che i giudizi morali sono oggettivi. Il filosofo Michael Ruse prende questo per dimostrare che l'apparente oggettività della moralità è qualcosa come una "illusione" impostaci dai nostri geni (Ruse [1986] 1998, 253). Naturalmente, se Ruse avesse ragione, ciò non dimostrerebbe che i giudizi morali non sono oggettivi, ma ci indurrebbe a ritenere che l'oggettività della moralità debba davvero essere spiegata, come molti filosofi ritengono. Ruse ha anche sostenuto che un concezione evoluzionista della moralità ci induce a credere in primo luogo che non esistano fatti morali. Qualsiasi aspetto morale si voglia spiegare, possiamo farlo senza menzionare fatti morali, almeno secondo quanto sostiene Ruse. Se i fatti morali sono esplicativamente ridondanti, infatti, dovrebbero essere i realisti morali (coloro che credono che ci siano fatti oggettivi indipendenti dalla mente sulla moralità, come abbiamo visto nel Capitolo 1) a spiegare perché abbiamo ancora bisogno di credere che esistano. È interessante notare che seguendo il naturalismo metodologico Ruse giunge ad una posizione contraria al naturalismo metafisico, secondo il quale esistono fatti morali.

Similmente Sharon Street, per esempio, sostiene che le spiegazioni evolutive della moralità mostrano che il realismo morale è con ogni probabilità falso. Il tipo di realismo morale cui Street fa riferimento è l’idea che le proprietà morali esistano come caratteristiche oggettive del mondo (ad esempio che rubare sia sbagliato indipendentemente dal fatto che qualcuno pensi o senta che sia così). Così Street presenta il suo ragionamento:

Le forze evolutive hanno giocato un ruolo enorme nel modellare il contenuto degli atteggiamenti valutativi umani. La sfida per le teorie realiste del valore è spiegare la relazione tra queste influenze evolutive sui nostri atteggiamenti valutativi, da un lato, e le verità valutative indipendenti che il realismo pone, dall'altro. Il realismo, sostengo, non può dare una spiegazione soddisfacente di questa relazione. Da un lato, il realista può sostenere che non c'è alcuna relazione tra le influenze evolutive sui nostri atteggiamenti valutativi e le verità valutative indipendenti. Ma questa affermazione porta al risultato scettico implausibile che la maggior parte dei nostri giudizi valutativi sono errati a causa della pressione distorsiva delle forze darwiniane. L'altra opzione del realista è quella di sostenere che esiste una relazione tra le influenze evolutive e le verità valutative indipendenti, vale a dire che la selezione naturale ha favorito gli antenati che erano in grado di afferrare quelle verità. Ma questo conto, sostengo, è inaccettabile su basi scientifiche. (Street 2006: Abstract)

Rispecchiando l'affermazione di Ruse, i fatti morali potrebbero essere eliminati da ciò che assumiamo esista perché non svolgono un'importante funzione esplicativa. Quindi, dovremmo rifiutare il realismo morale. L'argomentazione di Street illustra come la teoria evolutiva possa essere usata per spiegare quali teorie metaetiche dovremmo adottare.

Sia gli argomenti di Ruse che quelli di Street si basano sull'idea che dovremmo accettare che qualcosa esista solo se svolge un ruolo esplicativo indispensabile e ci sono mezzi per resistere a questi argomenti.12 Entrambi gli argomenti, come presentati qui, si basano sulla correttezza della spiegazione evolutiva della moralità che trasmettono. Nella prossima sezione, ci rivolgiamo alla rilevanza dell'etica evolutiva per l'epistemologia morale.

Possiamo avere credenze morali giustificate?

L'argomento evolutivo di Sharon Street può anche essere interpretato come un argomento sulla giustificazione morale e sulla conoscenza morale. Supponiamo che i realisti morali affermino che non ci sia alcuna relazione tra i nostri giudizi morali e i fatti morali. Sembrerebbe un'incredibile coincidenza se i realisti avessero ragione e i nostri giudizi morali fossero comunque veri. Ci sono troppe verità morali possibili e troppi modi in cui l'evoluzione potrebbe aver "spinto" le nostre convinzioni morali. Street sostiene che una tale coincidenza sarebbe troppo difficile da credere. Ma qual è il problema, esattamente, nell'avere credenze che sono solo casualmente vere? A seconda di come intendiamo la "coincidenza", la mia convinzione che ci sia un uccello fuori dalla mia finestra è casualmente vera perché se avessi guardato un po' più tardi, l'uccello sarebbe già volato via. Non sembra che credenze casualmente vere costituiscano sempre un problema. La questione per i sostenitori dell'argomento di Street è mostrare perché l'influenza evolutiva sulle convinzioni morali umane costituiscono un caso particolarmente problematico di coincidenza.

Il filosofo Richard Joyce sostiene che il problema ha a che fare con la sensibilità delle nostre credenze morali verso i fatti morali (Joyce 2006). Dato che le nostre convinzioni morali sono influenzate dalle forze evolutive, e non dai fatti morali, esse resterebbero le stesse anche se i fatti morali cambiassero. Ma poiché non dovremmo aggrapparci a tali convinzioni insensibili, le spiegazioni evolutive della moralità mostrano che le nostre convinzioni morali sono ingiustificate (perché non sono sensibili).

Non è chiaro, tuttavia, se e perché le spiegazioni evolutive della moralità rivelino qualcosa sulle nostre credenze morali che sia particolarmente preoccupante da una prospettiva epistemologica. L'impatto dell'etica evolutiva sulle questioni epistemologiche dipende da queste domande più profonde sull'epistemologia 12. Le spiegazioni evolutive della moralità, tuttavia, ci forniscono un utile punto di partenza per pensare a queste domande.

Conclusione

L'etica evoluzionista ci ha aiutato a capire molto più chiaramente da dove viene il senso morale umano. Anche se ciò è ben lungi dal rivelarci cosa dovremmo fare, il programma di ricerca sembra comunque pieno di promesse. Una volta entrati nei dettagli, ci accorgiamo che solleva anche profonde questioni teoriche sulle spiegazioni evolutive, la relazione tra affermazioni descrittive e normative, l'epistemologia della giustificazione e della verità e la fattibilità generale del naturalismo nell'etica. Ci sono ancora molte domande, quindi, ma anche qualche idea su dove cercare le risposte.

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Altre letture

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Note

1 Cfr. Segerstrale (2000) 
2 Ad esempio Kitcher (2011); Flanagan (2017); Appiah (2009). 
3 Si veda Zamzow e Nichols (2009). 
4 Si veda Joyce (2016). 
5 Ad esempio Mackie (1977; Ayer (1936). 
6 Ad esempio Railton (1986); Brink (1989); Boyd (1988). 
7 Si veda Joyce (2016). 
8 Si veda Railton (2017). 
9 Alcuni biologi evoluzionisti includono queste caratteristiche in quello che chiamano il "fenotipo esteso". Si veda Dawkins (2016). 
10 Si veda Paul (2006). 
11 Si veda Tomasello (2016). 
12 13. Si veda Klenk (2019).