Estetica e politica

Presumibilmente oltre la politica: l’invenzione dell’estetica

Contro l'assunto comune che sia il contenuto delle opere d'arte a contenere, almeno in alcuni casi, messaggi politici, filosofi come Theodor W. Adorno e Jacques Rancière hanno sostenuto che la politica dell'estetica dovrebbe piuttosto essere collocata nella dimensione formale dell'arte. Questo capitolo, tuttavia, sostiene che la semplice esistenza, o meglio, la nascita dell'estetica come sottodisciplina filosofica nel XVIII secolo in Europa occidentale è di per sé altamente politica. Inoltre sosteniamo che è sullo sfondo della politica dell'estetica come disciplina che vanno compresi i dibattiti sulla politica di specifiche forme e/o contenuti estetici. Per questo motivo il presente capitolo inizia con una breve discussione sull'inizio dell'estetica filosofica e sul suo contesto sociale e geopolitico.

A differenza dei domini della filosofia teoretica e pratica, la sottodisciplina dell'estetica è emersa piuttosto tardi nella filosofia occidentale.1 Il primo libro intitolato Aesthetica, scritto da Alexander Gottlieb Baumgarten, fu pubblicato nel 1750 (Baumgarten [1750] 2007); tuttavia Baumgarten utilizzava ancora il termine “estetica” per definire un tipo specifico di conoscenza, quella sensoriale. Naturalmente, nei secoli precedenti erano state scritte miriadi di trattati e regole sull'arte, ma di solito da artisti o artigiani stessi e non da filosofi. Inoltre, fino alla fine del XVIII secolo non esistevano l'arte, la teoria dell'arte o l'estetica al singolare (collettivo), ma una pluralità di arti e di regole per ciascuna di esse.

Dopo l'invenzione dell'estetica filosofica, tuttavia, nel corso del XVIII secolo la produzione artistica è stata sempre meno teorizzata. Piuttosto, la produzione artistica era lasciata ai “geni” e quindi considerata al di là dell'analisi, oltre che dell'insegnamento e dell'apprendimento. Gli unici individui che dovevano essere analizzati e istruiti (all'infinito) erano, come oggi, i destinatari delle esperienze estetiche e il gusto di tali destinatari. Questo importante cambiamento e il suo intreccio politico sono più evidenti nella Critica del giudizio di Immanuel Kant (1724-1804) ([1790] 2008).

Nella prima parte della Critica, dedicata alle questioni della bellezza e dell'arte, Kant inizia tracciando una linea di demarcazione assolutamente rigorosa tra le questioni della bellezza, da un lato, e le questioni teoriche e pratiche, dall'altro. Procede poi distinguendo tra quattro “momenti” o “condizioni di possibilità” del giudizio estetico. Mentre i “momenti” uno e tre sottolineano il disinteresse del piacere estetico e dei giudizi che lo esprimono, i momenti due e quattro riguardano l'universalità dei giudizi estetici.

Si potrebbe dire molto, e in effetti molto è stato scritto, sulle provocazioni insite nel principio di disinteresse e sulle esclusioni che esso sostiene su basi apparentemente (puramente) trascendentali. La concezione kantiana dei giudizi estetici non solo respinge tutte le forme di sensualismo, ma anche qualsiasi tipo di miglioramento etico o morale attraverso le esperienze estetiche, che erano state così importanti nei dibattiti inglesi sul gusto, di cui Kant era ben consapevole.2 Inoltre il principio di disinteresse presuppone soggetti estetici i cui bisogni primari siano soddisfatti e che abbiano un ampio tempo libero. Chi, invece, soffre la fame come, a quanto pare, gli “irochesi sachem” a cui Kant si riferisce nel § 2 ([1790] 2017) potrebbe avere difficoltà a contemplare una tavola imbandita. Non a caso esiste una vasta letteratura che sostiene che il concetto di disinteresse estetico non sia un'invenzione (kantiana), ma piuttosto una reazione alla crescita di una classe media borghese benestante con molto tempo libero nell'Europa occidentale verso la fine del XVIII secolo (cfr. Woodmansee 1994; Mortensen 1977).

Il principio kantiano di universalità non è meno contestato. In un primo momento sembra che l'universalità in questione sia garantita dal semplice fatto che nelle esperienze estetiche è coinvolta nient'altro che una certa relazione tra le facoltà cognitive dell'immaginazione e della comprensione, il loro libero gioco non gerarchico e non teleologico. Secondo Kant questo libero gioco significa che entrambe le facoltà sono ugualmente importanti e, pertanto, non possono porre fine alla loro interazione ludica sconfiggendo l'altra. E poiché non sono coinvolte altro che le nostre facoltà cognitive (che condividiamo con tutti gli esseri umani), il mio giudizio — o così sembra sostenere Kant — deve essere anche quello di tutti gli altri. Secondo questa concezione dei giudizi estetici, il gusto non presuppone alcuna conoscenza speciale, educazione o quant'altro, se non le facoltà cognitive dell'immaginazione e della comprensione. 3 Questo sembra aprire il regno dell'estetica in un modo veramente emancipatorio, anzi inaudito, a tutti gli esseri umani, perché tutti gli esseri pensanti possiedono le due facoltà necessarie all'esperienza estetica. Tuttavia Kant procede discutendo l’obiezione secondo la quale noi potremmo ingannarci riguardo agli interessi nascosti (o meno) e supporre erroneamente che, nel giudicare bello un oggetto, siano coinvolte solo le nostre facoltà cognitive. Per questo motivo è necessario un test aggiuntivo per scoprire se nelle esperienze estetiche e nel giudizio che ne consegue siano davvero coinvolte solo l'immaginazione e la comprensione.

Il test che Kant propone — senza mai chiamarlo test — va sotto il nome di sensus communis o “senso pubblico”. Consiste nel giudicare un oggetto potenzialmente bello o una sua rappresentazione non solo dal mio punto di vista, ma anche da quello

degli altri, non tanto a quelli reali quanto piuttosto a quelli semplicemente possibili, e ci si mette al posto di ogni altro semplicemente astraendo dalle limitazioni inerenti in modo contingente alla nostra propria valutazione: cosa che si ottiene lasciando da parte, per quanto è possibile, ciò che nello stato rappresentativo è materia, cioè la sensazione, e prestando esclusivamente attenzione alle peculiarità formali della propria rappresentazione o del proprio stato rappresentativo. (Kant [1790] 2017, 277)

Quando Kant si riferisce per la prima volta al sensus communis nel § 22 e sostiene che tale senso è necessariamente presupposto in tutti i giudizi estetici, lascia aperta la questione se il sensus communis sia una parte intrinseca delle facoltà cognitive dell'immaginazione e della comprensione o se sia qualcosa da apprendere nel corso della vita individuale, o nel corso del processo che chiama civiltà. Più avanti nel testo, tuttavia, Kant sostiene chiaramente un sensus communis che è il risultato di un processo di apprendimento che, a sua volta, separa chi è “semplicemente uomo” da chi è “a suo modo un uomo raffinato (è questo l’inizio dell’incivilimento)” ([1790] 2017, 285). Come nel § 2, sono gli Irochesi, tra gli altri, a esemplificare cosa significhi essere “semplicemente un essere umano” secondo Kant, e non conoscere le raffinatezze della civiltà e del gusto:

[…] all’inizio acquistano importanza nella società e sono collegate con un grande interesse solo le attrattive, per esempio colori per dipingersi (il rocou dei caribi e il cinabro degli irochesi), oppure fiori, conchiglie, penne di uccello variopinte, ma con il tempo anche belle forme (come nelle canoe, nei vestiti ecc.), che non procurano alcun soddisfacimento, cioè un compiacimento del godere; finché l’incivilimento, giunto al suo punto più alto, ne fa quasi lo scopo principale dell’inclinazione raffinata e al le sensazioni viene accordato valore soltanto nella misura in cui esse si possano universalmente comunicare. ([1790] 2017, 285)

Sebbene l'intreccio tra educazione estetica e idea razziale di civiltà sia già abbastanza problematico, il successivo e ultimo paragrafo sul gusto come sensus communis sostiene una differenziazione ancora più spaventosa. Invece di distinguere solo tra diversi stadi del progresso civile, questa sezione esclude completamente alcuni esseri umani dal processo di acquisizione del gusto come interesse per la pura bellezza formale. Scrive Kant nel § 42: “[…] un questo interesse immediato per la bellezza della natura” – l'epitome della bellezza formale – “non è comune, bensì è proprio solo di coloro il cui modo di pensare o si è già formato al bene o è particolarmente ricettivo rispetto a una tale formazione” ([1790] 2017, 293).

Le osservazioni conclusive di Kant sul principio del sensus communis implicano quindi che alcuni esseri umani sono già raffinati, mentre altri sono almeno suscettibili di addestramento al perfezionamento. Tuttavia c'è un terzo gruppo di esseri che sembra rimanere insuscettibile. Nell'argomentare a favore di tale divisione, i passi apparentemente emancipatori di Kant verso una concezione dell'estetica non più legata ai privilegi di classe, genere o razza sembrano non andare oltre le sue prime Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime ([1764] 2011), nonostante l'importanza della svolta trascendentale o critica che si colloca tra le due opere. Nelle Osservazioni di Kant sono le donne ad essere suscettibili di acquisire il gusto come sensus communis (solo in futuro) mentre i neri, e qui Kant si basa su osservazioni altamente problematiche di David Hume (cfr. Gikandi 2011, 99-106), sono del tutto esclusi (cfr. il contributo di Elizabeth Coleman a questo volume, capitolo 9).

A parte il fatto che Hume e Kant conoscevano scrittori e filosofi neri, ma evidentemente consideravano i loro risultati insignificanti, non si può non concludere che l'idea di gusto che Kant propugna è specificamente orientata a uomini bianchi e istruiti, cioè a esseri umani come lui. Per dirla in modo più paradossale: la prova dell'universalità dei giudizi estetici, cioè l'atteggiamento apparentemente cosmopolita di pensare dalla prospettiva di tutti gli altri, si rivela un privilegio di pochi favoriti. Così, il resoconto di Kant sul gusto o sensus communis sembra lavorare per chiudere il gruppo dei soggetti del gusto e per valorizzarli. Sottolineando i pregiudizi di classe piuttosto che le questioni di razza o di genere, Richard Shusterman giunge a una conclusione simile quando scrive: “L'uniformità del gusto viene a significare l'uniformità del gusto di coloro che hanno gusto e questo è già ampiamente determinato dalle strutture prevalenti di privilegio sociale” (1993, 110).

In sintesi, nonostante l'affermazione iniziale della Critica del Giudizio di Kant secondo cui l'estetica non ha nulla a che fare con questioni di etica, morale o politica, la teoria estetica del XVIII secolo funziona come un apparato che contribuisce a stabilire la supremazia del soggetto borghese e liberale e, in primo luogo, del soggetto maschile, che si distingue per il suo gusto estetico — il “gusto” è la categoria principale che sutura i dibattiti francesi, inglesi e tedeschi (Lowe 2015, 4; Lloyd 2019). Il rovescio della medaglia della costruzione di tale superiorità non consiste solo nel rafforzamento della divisione gerarchica di classe e di genere. Piuttosto, le teorie estetiche europee del XVIII secolo giocano un ruolo importante nell'invenzione del pensiero razziale che ha reso possibile la concettualizzazione degli esseri umani schiavizzati come merce, bestiame e strumento, e quindi l'esternalizzazione della violenza capitalista nelle parti colonizzate del mondo (Bindman 2002; Gikandi 2011). Ad esempio, non c'è quasi nessun estetologo del XVIII secolo che non abbia scritto sul colore e sulla percezione dei neri (Gilman 1975).

Inoltre il regime estetico inventato dalla teoria estetica borghese nel XVIII secolo offriva opportunità ideali per oscurare la violenza classista, sessista e coloniale e per coprire di bianco4 i profitti derivanti da tale violenza, in modo che l'esproprio, l'estrazione di materie prime, lo sfruttamento e le vere e proprie uccisioni di massa potessero apparire come semplici opere di carità. In quanto tale, la teoria estetica prometteva libertà, autonomia ed emancipazione nei tempi più brutali; nei tempi, cioè, in cui la paura borghese di insurrezioni nelle colonie ma anche in patria era pervasiva e l'accettazione della supremazia bianca sembrava in qualche modo vacillare. In questo contesto il possesso del gusto estetico divenne una sorta di garanzia che il soggetto borghese era effettivamente al di sopra sia del corrotto soggetto feudale sia dei violenti cattivi delle colonie.

Ad esempio Simon Gikandi, che ha pubblicato ampiamente sulla relazione tra la schiavitù e l'emergere della teoria estetica europea nel XVIII secolo, scrive nel suo Slavery and the Culture of Taste: “come hanno notato i principali studiosi dell'ordine dell'arte nel XVIII secolo, la categoria del gusto e l'idea di estetica in generale sono sorte come parte di un tentativo concertato di stabilizzare gli aspetti potenzialmente eccessivi e dirompenti del commercio” (2011, 59).

D'altra parte la nuova sfera dell'arte autonoma e le sue istituzioni emergenti, in particolare il mercato dell'arte, hanno fornito ampie opportunità di investire il profitto capitalistico in qualcosa di innocuo, se non addirittura liberatorio ed emancipatorio. La ricerca di Carmen Mörsch sulla storia dell'educazione artistica in Gran Bretagna, ad esempio, ha dimostrato in modo convincente che questa pratica apparentemente emancipatrice è iniziata negli ospedali per trovatelli della Londra del XVIII secolo, dove i bambini di strada ridotti in povertà venivano trasformati, grazie alle opere d'arte, in esseri civilizzati pronti per lo sfruttamento capitalistico. Tuttavia le opere d'arte esposte in questi ospedali — oggetti prestati dalla borghesia caritatevole — venivano anche regolarmente mostrate al pubblico per essere vendute a collezionisti emergenti. In altre parole: quella che sembrava un'elemosina agli ospedali per trovatelli era un apparato per dare un significato positivo al profitto e ottenere ulteriori profitti attraverso l'affermazione del mercato dell'arte britannico (Mörsch 2017).5

In conclusione, la sfera apparentemente autonoma dell'estetica, che fu difesa con grande accanimento da Kant nel XVIII secolo, non era poi così autonoma. Piuttosto, l'istituzionalizzazione di tale autonomia estetica aveva forti implicazioni etiche e politiche che venivano coperte di bianco, enfatizzando l'emancipazione e la libertà estetica.

Tuttavia, non passò molto tempo prima che la rapida istituzionalizzazione dell'autonomia estetica e la sua teoria filosofica venissero criticate. Ad esempio, dagli sforzi di Hegel di collegare la teoria dell'arte alla società e alla storia e, nella seconda metà del XIX secolo, dal tentativo di Nietzsche di ricollegare l'arte alla vita (Hegel [1823] 2014; Nietzsche [1872] 1993). Sia gli elementi hegeliani che quelli nietzscheani di critica all'estetica dell'autonomia di Kant sono stati ulteriormente sviluppati da vari filoni dell'estetica pragmatista a cavallo tra il XIX e il XX secolo, che vanno dal citato libro di Dewey Art as Experience a Souls of Black Folk di W.E.B. Du Bois (Dewey [1934] 1980; Du Bois [1903] 2007). Mentre il primo è diventato rapidamente un classico, il resoconto pragmatista di Du Bois sull'arte popolare nera è stato quasi del tutto ignorato dall'estetica filosofica. 6

L'estetica come politica e il ruolo del destinatario

Nella prima sezione di questo capitolo abbiamo preso chiaramente le distanze dalle teorie estetiche che celebrano la cesura kantiana nella storia dell'estetica occidentale come una (unica) democratizzazione. Tuttavia, il fatto di attribuire a Kant un significato così importante in questo testo è motivato, da un lato, dall'obiettivo di dimostrare la politicità (coloniale, razzista, sessista e classista) sottesa alla presunta estetica disinteressata di Kant. D'altra parte, non vogliamo nascondere il fatto che nel XX e XXI secolo l'estetica dell'autonomia di Kant ha ancora una forte influenza sull'estetica occidentale – non solo sui filosofi disciplinarmente conservatori che accettano la divisione kantiana tra estetica, epistemologia e politica o etica, ma anche tra pensatori di sinistra come Jacques Rancière, che si concentra sull'intersezione tra estetica e politica.

Rancière elogia il potenziale democratico della cesura kantiana nella teoria estetica europea per due motivi: in primo luogo per il fatto che, in molte formulazioni, Kant suggerisce che tutti gli esseri umani sono in grado di emettere giudizi estetici. In secondo luogo, Rancière plaude al rifiuto di Kant dei manuali estetici dell'età classica, che prescrivevano regole normative per singole arti o generi.7 Pieno di entusiasmo per questa estetica della liberazione (dalle prescrizioni), Rancière sostiene che con Kant (e Schiller) emerge un nuovo e vero “regime estetico” che sostituisce l'estetica orientata alle regole che ha prevalsa da Aristotele in poi. Secondo Rancière il nuovo regime estetico deve essere inteso come il “regime specifico del sensibile, che viene estraniato dalle sue connessioni ordinarie”, cioè da un sistema di mezzi e fini rappresentativi. Inoltre, dice che il nuovo regime estetico (kantiano) libera l'arte al singolare “da ogni regola specifica, da ogni gerarchia di arti, soggetti e generi” (Rancière 2004, 23). È proprio questa liberazione dell'arte dal precedente sistema di mezzi e fini rappresentativi che Rancière considera politicamente emancipatoria. Rancière sostiene addirittura che, a causa del suo movimento egualitario anti-rappresentativo e quindi anti-gerarchico, l'arte autonoma in quanto tale diventa politica nel regime estetico. Con questa generalizzazione Rancière trascura le implicazioni altamente esclusive dell'estetica kantiana e rifiuta di indagare più precisamente quando, dove e per chi l'arte possiede o meno un potenziale liberatorio. Inoltre polemizza decisamente contro l'arte contemporanea esplicitamente politica e, allo stesso tempo, sostiene che l'autonomia estetica e la politica emancipatrice non si escludono a vicenda ma, al contrario, dipendono l'una dall'altra.

Per comprendere lo stretto intreccio tra politica ed estetica di Rancière e il suo rifiuto di un'arte esplicitamente impegnata è necessario tenere presente la nozione molto particolare di politica di Rancière. A suo avviso, la politica non indica la politica di partito, il parlamentarismo, gli affari di Stato o l'esercizio del potere, ma “innanzitutto un intervento sul visibile e sul dicibile” (Rancière 2001, §21); o, per dirla diversamente, situazioni che sconvolgono gli ordini esistenti, gerarchicamente strutturati, della percezione e di ciò che, finora, è stato considerato “evidente”, “naturale” e “reale”. Secondo Rancière la politica è una “ridistribuzione del sensibile”, dove “il sensibile” si riferisce all'indissolubile confluenza di sensibilità e significato. Inoltre tale politica è un affare inevitabilmente estetico. È interessante notare che “estetica” qui non designa l'“arte” o qualsiasi cosa legata all'arte, ma si riferisce piuttosto al termine greco aisthesis (percezione sensuale). Per essere più precisi, questa politica non è una questione di (più giusta) ridistribuzione, ma piuttosto una rottura radicalmente democratica della distribuzione prevalente e delle sue gerarchie.

Sulla base di questo specifico concetto di politica, Rancière rifiuta decisamente qualsiasi arte impegnata nell'attivismo o nella critica dell'ideologia. Sostiene invece un'arte che si allontana dalla realtà esistente e dai suoi standard abituali di rappresentazione, comunicazione e informazione, facendo emergere un'indeterminatezza estetica fondamentalmente aperta. Mentre nei suoi primi scritti politici Rancière sosteneva una politica di dissenso che prendeva una posizione chiara a favore di specifiche espansioni dell'uguaglianza, la più recente teoria dell'arte di Rancière tende in ultima analisi a dissolvere tale posizione di dissenso a favore di un elogio generale dell'esteticamente aperto e indeterminato. Di conseguenza egli polemizza aspramente contro l'arte che mira all'emancipazione e all'educazione in modo diretto, come ad esempio il teatro epico di Bertolt Brecht. Rancière condanna l'obiettivo del teatro epico di “mostrare atteggiamenti politici scorretti e quindi insegnare quelli corretti” (Brecht [1930] 1998, 345) come un “ottundimento” pedagogico e anti-emancipatorio. Egli ritiene che l'intenzione di insegnare a distinguere il bene dal male sia di per sé problematica perché si basa sulla premessa di una differenza gerarchica tra conoscenza (espressa nell'opera d'arte) e ignoranza (dei destinatari), capacità e incapacità, attività e passività. L'arte veramente politica, al contrario, dovrebbe piuttosto partire dalla premessa che “l'emancipazione inizia... quando comprendiamo che la visione è anche un'azione che conferma o trasforma questa distribuzione di posizioni. Anche lo spettatore agisce. ... Osserva, seleziona, confronta, interpreta” (Rancière 2009, 13).

L'attività produttiva di coloro che tradizionalmente vengono chiamati destinatari è al centro anche dell'estetica politica di Walter Benjamin (1892-1940). Nel suo caso, tuttavia, il potenziale politico della spettatorialità attiva non è legato all'indeterminazione estetica e a un'apertura generalizzata del sensibile, ma all'urgenza politica, da un lato, e alle nuove condizioni tecnologiche, dall'altro. Non è meno significativo che Benjamin abbia fatto ripetutamente e affermativamente riferimento a Brecht. Amici tra loro, entrambi erano critici radicali dell'idea borghese dell'autonomia dell'arte e della concezione borghese della ricezione come contemplazione.

Pensando e scrivendo in condizioni precarie, in esilio dalla Germania nazista, Benjamin non è tanto interessato all'esperienza estetica soggettiva quanto, piuttosto, alle condizioni materiali e tecniche della produzione culturale moderna, ai suoi fattori economici e alle funzioni sociali che l'arte ha svolto e svolge nel passato e nel presente. Secondo Benjamin la percezione umana — compresi i modi dell'esperienza estetica e dello spettatore — non è determinata dalla biologia degli organi umani, ma è condizionata dalla storia sociale e dalle tecnologie dei media e, pertanto, è variabile. Il cinema, ad esempio, è considerato da Benjamin non solo come la modalità espressiva adatta al XX secolo grazie alla frammentazione e al montaggio, ma anche come una palestra per la vita moderna, poiché contribuisce all'accelerazione dell'elaborazione delle impressioni sensoriali. Nel suo saggio L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin analizza il modo in cui la riproducibilità tecnica cambia il rapporto tra l'arte e il suo pubblico che, nell'epoca della fotografia e del cinema, non è più limitato a singoli individui che contemplano davanti a un originale quasi sacro (Benjamin 1969). Grazie alla loro riproducibilità tecnica, le immagini sono liberate dall'autenticità “auratica” dell'esistenza unica (“qui e ora”) che incombeva sul cosiddetto originale pittorico. 8 La fotografia e il cinema, invece, invitano alla ricezione di massa, per cui l'operatività politica prende il posto della precedente logica sacra della contemplazione. Tale operatività politica si basa, in primo luogo, sul fatto che, in quanto massa, il pubblico è in grado di comunicare collettivamente invece di ritirarsi nell'interiorità individuale delle proprie associazioni private. In secondo luogo, a causa del loro carattere tecnico, il cinema e la fotografia richiedono e consentono una consapevolezza diversa rispetto ai dipinti, ossia un atteggiamento critico anziché un piacere ricettivo.

La ragione di ciò va ricercata nell'apparato tecnico della macchina da presa: “Evidentemente alla macchina da presa si apre una natura diversa da quella che si apre all'occhio nudo, se non altro perché a uno spazio inconsciamente penetrato si sostituisce uno spazio consapevolmente esplorato” (Benjamin 1969, 236). Benjamin sottolinea che la macchina fotografica non ritrae semplicemente in modo più dettagliato ciò che è già evidente. Piuttosto, l'istantanea isola una frazione di secondo dal flusso di un movimento che non è mai stato percepito prima; allo stesso modo, l'ingrandimento microscopico mostra la struttura a particelle fini di un materiale che appare grossolano a occhio nudo. Questa possibilità tecnica di far luce su nuovi strati della realtà che finora erano al di là della percezione umana è di estrema importanza per Benjamin, poiché l'emergere della fotografia dimostra che la visione e la percezione umana non sono meccanismi puramente naturali, ma soggetti alle influenze delle pratiche culturali e degli sviluppi tecnici. A differenza dei dipinti “creativi” (cioè composti in modo tradizionale e consapevole), le fotografie possono aprire cose precedentemente inosservate (Benjamin 1972, 7, 21). Ogni volta che si verificano tali aperture, le immagini fotografiche diventano fastidiosamente estranee ai loro spettatori.

È proprio questa irritazione e alienazione — che secondo Benjamin si ritrova paradigmaticamente nelle fotografie di Eugène Atget di strade parigine deserte — che permette a Benjamin di individuare la funzione politica della fotografia: il potere di stabilire “prove di eventi storici” (1969, 226) senza sottoporre le immagini tecniche alle norme di rappresentazione e all'“ottundimento pedagogico” di cui parla Rancière. Infatti, se lo spettatore è disturbato da certe immagini fotografiche, il modo tradizionale di consumare l'arte passivamente in “libera contemplazione non è più adatto a loro” (1969, 226). Piuttosto, esse sfidano lo spettatore a leggere attivamente il loro significato in relazione alla realtà presente. Di conseguenza, l'immagine fotografica in sé è solo metà del lavoro; è la lettura critica dello spettatore che crea “una fotografia che letterarizza le relazioni della vita e senza la quale la costruzione fotografica rimarrebbe bloccata nell'approssimazione” (1972, 25). Poiché la verità storica, la cui prova è fornita dalla fotografia e dal cinema, non è semplicemente rappresentata nell'immagine ma deve essere prodotta in una lettura contestualizzante dell'immagine, “la distinzione tra autore e pubblico sta per perdere il suo carattere fondamentale” (1969, 232). Evidenziare e contribuire alla dissoluzione di questa distinzione è il cuore dell'estetica politica di Benjamin.

Essendo un pensatore politico di sinistra, profondamente preoccupato per la politica autocratica del nazionalsocialismo tedesco, Benjamin era interessato all'arte e alla produzione culturale nella misura in cui essa possiede quella che egli chiama una “funzione organizzativa”. Poiché il regime nazista, con i suoi spettacoli teatrali di massa di grande impatto visivo, perseguiva un'estetizzazione della politica, per Benjamin era imperativo politicizzare l'estetica. Tale politicizzazione — di cui Brecht è stato il pioniere, secondo Benjamin — si sviluppa attraverso una “trasformazione funzionale” emancipatoria dell'arte (termine coniato da Brecht) verso la liberazione e la socializzazione dei mezzi di produzione artistica. Invece di servire semplicemente l'apparato esistente della produzione culturale, Benjamin sostiene la trasformazione e il miglioramento di questo apparato in modo che “conduca i consumatori alla produzione, in breve che sia capace di fare dei lettori o degli spettatori dei collaboratori” (1970, 93). Pertanto, la funzione organizzativa dell'arte politicizzata non risiede nella mera agitazione, ma nella rimozione della separazione tra ricezione e produzione.

Sebbene la preoccupazione di Brecht sia chiaramente l'agitazione politica e il disvelamento della verità storica, la sua trasformazione funzionale dell'arte non si limita a una pedagogia gerarchica. Nei suoi Lehrstücke — curiosamente spesso tradotti come “insegnamento-gioco”, mentre la traduzione di Brecht stesso era “apprendimento-gioco” — il pubblico non viene tanto istruito da ciò che viene presentato sul palcoscenico, quanto piuttosto coinvolto attivamente nella rappresentazione e quindi nell'apprendimento attraverso l'uso pratico. Andrebbe oltre lo scopo di questo articolo discutere in dettaglio fino a che punto il pubblico dei Lehrstücke di Brecht diventi effettivamente un produttore a tutti gli effetti. In ogni caso, le considerazioni teorico-artistiche di Benjamin sono fortemente ispirate da Brecht e giungono così a un'estetica politica che è in contrasto con la separazione tra ricezione e produzione estetica. Egli suggerisce una politicizzazione molto più fondamentale dell'uso artistico di temi politici che, secondo la diagnosi di Benjamin (ancora oggi sorprendentemente attuale), ha scarso effetto: “Di fatto ci troviamo di fronte a una situazione... in cui l'apparato borghese di produzione e pubblicazione può assimilare un numero sorprendente di temi rivoluzionari, e può persino propagarli senza mettere seriamente in discussione la propria esistenza o l'esistenza della classe che li possiede” (1970, 90).

Cinquant'anni dopo, l'insistenza di Benjamin e Brecht sulla necessità di consentire ai destinatari di diventare produttori attivi è stata ripresa da diversi studiosi della Scuola di Studi Culturali di Birmingham. Questi studiosi non solo hanno concepito le pratiche di ricezione come modalità di produzione culturale. Hanno anche messo al centro della scena forme di produzione precedentemente trascurate, in particolare la produzione da parte di produttori emarginati (Hall 2007).

Pratiche relazionali: estetica politica oltre l’arte

Rifacendosi a Félix Guattari, il curatore francese Nicolas Bourriaud ha coniato il termine “estetica relazionale” in riferimento ai progetti artistici degli anni Novanta orientati al processo e alla partecipazione, che spostano la loro energia creativa dalle opere d'arte come oggetti ed entità orientate al mondo dell'arte verso situazioni sociali di incontro e scambio. In considerazione dei progetti di artisti come Rikrit Tiravanija, Félix Gonzales-Torres, Christine Hill o Pierre Huyghe, tutti incentrati sull'attività del pubblico, Bourriaud afferma che “l'arte contemporanea modella più di quanto non rappresenti, ... l'arte è allo stesso tempo oggetto e soggetto di un'etica” e “l'arte è uno stato di incontro” (2002, 18). La sua comprensione di tale arte nel quadro dell'estetica relazionale è fortemente ispirata dagli scritti di Guattari su quello che quest'ultimo ha definito un “nuovo paradigma estetico”. Questo nuovo paradigma estetico informa anche l'interesse di Guattari per l'arte, che non è né un interesse per l'eccezionale produttività di un artista-individuo né un appello per l'estetizzazione del sociale (nel senso di una superficiale abbellimento o glorificazione della vita comunitaria). Guattari sostiene piuttosto processi creativi che collegano la pratica artistica a modalità di soggettivazione, produttività collettiva ed ecologia ambientale:

La rifondazione della politica dovrà passare attraverso le dimensioni estetiche e analitiche implicite nelle tre ecologie: l'ambiente, il socius [cioè le relazioni sociali tra gli esseri umani] e la psiche. Non possiamo concepire soluzioni all'avvelenamento dell'atmosfera e al riscaldamento globale dovuto all'effetto serra, o al problema del controllo della popolazione, senza una mutazione della mentalità, senza promuovere una nuova arte di vivere in società. ... Non possiamo concepire una ricomposizione collettiva del socius ... senza un nuovo modo di concepire democrazie politiche ed economiche che rispettino le differenze culturali. ... L'intera divisione del lavoro, le sue modalità di valorizzazione e le sue finalità devono essere ripensate. ... La poesia di oggi potrebbe avere più da insegnarci della scienza economica, delle scienze umane e della psicoanalisi messe insieme. (Guattari 1992, 20)

Sullo sfondo teorico di questo paradigma estetico “ecosofico”, Bourriaud si concentra su progetti artistici il cui “substrato è formato dall'intersoggettività e che assumono... l'essere-insieme come tema centrale” (Bourriaud 2002, 15). In questo modo, Bourriaud concepisce gli incontri esclusivamente come forme di socialità umana, mentre la soggettivazione di Guattari è “l'auto-arricchimento della sua relazione con il mondo” e, quindi, comporta un approccio più sfumato e materialmente differenziato che va oltre le relazioni umane. Guattari immagina un'ecosofia (filosofia ecologica) secondo la quale gli ambienti più che umani, le relazioni sociali e le soggettività psicologiche sono interrelate e si arricchiscono reciprocamente. Bourriaud, invece, concepisce la relazionalità come una connettività autenticamente umana, in grado di compensare i difetti sociali e di promuovere, in modo stranamente armonico, il recupero dalle alienazioni di una realtà capitalista e tecnologizzata. Inoltre la sua attenzione ai raduni di persone nella cornice delle mostre d'arte (che di per sé sono piuttosto esclusive) trascura i rapporti di potere e le specificità degli intrecci materiali coinvolti.

Alla luce della lunga e variegata storia dell'arte partecipativa nel XX secolo (si vedano, ad esempio, Bishop 2012 e Raunig 2007), è sorprendente che Bourriaud dichiari che l'estetica relazionale degli anni Novanta ruota attorno a qualcosa di radicalmente nuovo. Mentre le avanguardie precedenti aspiravano a una rottura radicale e a un conflitto con il loro presente attraverso richieste rivoluzionarie e manifesti utopici, l'estetica relazionale si occupa di proposte costruttive per una comunità realizzabile con nuove “possibilità di vita” qui e ora (Bourriaud 2002, 46). Anche se Bourriaud non ha tutti i torti nell'attribuire alle avanguardie preoccupazioni utopico-rivoluzionarie e strategie provocatorie di confronto, alcune di esse non erano interessate al conflitto e allo sconvolgimento sociale, ma alla realizzazione di forme alternative di comunanza in contesti temporalmente e localmente limitati. Di conseguenza, sono abbastanza simili alla micropolitica della successiva arte relazionale. Gli artisti brasiliani Lygia Clark e Hélio Oiticica, ad esempio, già a partire dagli anni Sessanta si affidavano a formati partecipativi, ad esempio, dedicati decisamente al piacere. Sfidando le routine quotidiane, lo spazio e il tempo delle loro installazioni invitavano a pratiche di “creleisure” (creazione e tempo libero), che rendevano possibili esperienze rilassanti, gioiose, terapeutiche o liberatorie. Clark ha anche progettato piccoli oggetti variabilmente mobili per i giochi con le dita — i cosiddetti “oggetti relazionali” — e varie strutture fatte di tessuti, lamine e fili, alcune delle quali avvolgevano o collegavano letteralmente i recipienti.

Le diverse pratiche artistiche appena menzionate hanno anticipato alcuni momenti dell'estetica relazionale e messo in discussione l'orizzonte dell'Occidente globalizzato post-industriale, ma hanno anche reso evidente che il rapporto tra arte e vita o arte e politica può essere analizzato adeguatamente solo in relazione a singoli casi di studio. Invece di riferirsi agli oscuri singolari collettivi di “arte” e “vita” o “politica”, è molto più illuminante guardare alla situazione geo-socio-storica di ogni specifico progetto estetico per scandagliarne i presupposti concreti, le strategie e i riferimenti, nonché le persone e i pubblici coinvolti. È soprattutto da una prospettiva femminista che la cecità storica e geopolitica di Bourriaud e le sue generalizzazioni si rivelano conseguenze seriamente problematiche, non da ultimo per quanto riguarda la valutazione degli artisti che egli elogia. Helena Reckitt, ad esempio, sostiene in modo convincente che il suo ignorare l'avanguardia femminista porta a una depoliticizzazione di quegli approcci artistici che Bourriaud nobilita come estetica relazionale (Reckitt 2013). Bourriaud trascura completamente il fatto che le artiste femministe e le artiste critiche nei confronti delle istituzioni hanno evidenziato fin dagli anni Settanta i presupposti violenti delle comunità, ovvero le loro gerarchie immanenti, le esclusioni nascoste e i supporti invisibili. La trascuratezza di Bourriaud nei confronti di queste pratiche artistiche è tanto più sorprendente in quanto i progetti da lui onorati coinvolgono, in larga misura, attività intimamente connesse ai campi del lavoro affettivo e immateriale (di cura). Si dice che l'arte relazionale sia comunicativa e di cura; nutre, dona, crea familiarità e coltiva l'ospitalità. Si tratta quindi di un campo di attività che per molto tempo è stato considerato “femminile”, almeno fino a quando questo campo non è diventato oggetto della critica femminista. In questo modo, Bourriaud trascura o nasconde artisti come Mierle Laderman Ukeles, che già decenni fa avevano lavorato sulle sfide della comunanza e, per di più, in modo tale che le disuguaglianze strutturali nella divisione del lavoro venissero alla luce e la relazionalità non rimanesse una micro-gestione meramente armoniosa.

Per concludere, vorremmo soffermarci su un'altra versione meno omogeneizzante dell'estetica relazionale, ovvero la "poetica della relazione" del poeta e filosofo martinicano Édouard Glissant. Lontano dall'ideale unificante di Bourriaud di “includere l'altro”, Glissant persegue una comprensione co-costitutiva ed eterogenea della relazionalità. Concentrandosi sulla storia coloniale e sul presente postcoloniale, Glissant sviluppa un concetto di relazionalità secondo cui ogni soggetto è un oggetto e ogni oggetto un soggetto all'interno di un mondo globalizzato di “creolizzazioni2. La creolizzazione non designa la fusione o l'integrazione, ma si riferisce piuttosto all'incontro con potenzialità imprevedibili. Se sostenuti dal reciproco apprezzamento degli elementi eterogenei, tali incontri hanno il potenziale di dispiegare la diversità trasformando tutto ciò che è coinvolto senza uniformarlo. Agli occhi di Glissant, gli incontri non sono rilevanti solo per le ex colonie come le Antille, dove si parla il creolo come risultato dell'incontro improvviso e violento tra lingue diverse nell'ambito della tratta transatlantica degli schiavi. Piuttosto, la creolizzazione dà anche forma a quello che Glissant chiama il “tout-monde” (mondo intero) o “chaos-monde” (mondo caos), cioè la mescolanza diversificante di culture che si annida globalmente in processi aperti di “urti, intrecci, repulsioni e attrazioni, consensi, opposizioni e conflitti” (1996, 82).

La relazione è ciò che realizza ed esprime simultaneamente questo movimento. È il modo caotico di relazionarsi (a se stesso). La poetica della relazione... intuisce, assume, apre, raccoglie, disperde, continua e trasforma il pensiero di questi elementi, di queste forme e di questo movimento. (Glissant 1997a, 94f.)

Glissant collega la percezione di queste relazioni creolizzanti a una pratica artistica eterogenea, perché il potenziale dell'immaginario ci permette di “concepire la globalità inafferrabile del chaos-monde” e di prendere atto allo stesso tempo dei dettagli particolari (1997b, 22). La poetica che ne deriva permette una diversificata “estetica della terra”, che interrompe l'imperativo, la “voce trionfante” del pensiero astratto occidentale. In riferimento a un materialismo dell'incontro, che è storicamente specifico e incarnato e abbraccia incontri più che umani, la poetica della relazione di Glissant rende conto degli intrecci colonial-capitalistici e dei potenziali emancipatori e creativi delle molteplici creolazioni. Attraverso l'osservazione dettagliata di un paesaggio specifico — ad esempio una spiaggia a sud della Martinica che apre la vista sulla Diamond Rock — la sua scrittura dialoga con le latenze di questa terra e realizza la presenza densa del luogo specifico. La sua poetica della relazione prende quindi come punto di partenza gli incontri corporei con la materialità del mondo, invece di scrivere come un autore-soggetto individuale che contempla sul mondo. Secondo Glissant, è la relazionalità della terra che trova la sua espressione attraverso e all'interno dell'incontro del poeta con un paesaggio specifico. In questo senso, egli descrive l'incontro dolorosamente risonante che emerge da una terra permeata dal (post)colonialismo: “È che qui mi trovo di fronte a questa necessità di esaurire in una volta sola il campo deserto (devastato) della storia in cui la nostra voce si è dissipata, e di precipitare questa voce nel qui e ora, nella storia da fare con tutti” (Glissant 2010, 43).

Qui l'impresa di Glissant incontra il Nuovo paradigma estetico di Guattari e l'appello di Donna Haraway per un più-che-umano Storytelling for Earthly Survival (cfr. Terranova 2016). Per tutti e tre, le pratiche poetiche sono di vitale importanza perché noi (anche se questo “noi2 non è mai privo di domande) abbiamo urgentemente bisogno di “una migliore concezione del mondo per poter vivere bene in esso” (Haraway 1988, 579). Sono le pratiche poetiche, alle quali Guattari, Haraway e Glissant assegnano il potenziale di una migliore, cioè situata, comprensione del mondo. Le loro poetiche si riferiscono a una concezione estetica, epistemica ed etica integrata che rimane legata alla terra e incompleta e che, allo stesso tempo, resiste alla globalizzazione uniformante del capitalismo occidentale di cui il campo dell'arte istituzionalizzato e l'estetica come disciplina filosofica sono parte integrante.

Conclusione

Riassumiamo ciò che abbiamo stabilito in questo capitolo: l'estetica filosofica canonica, che dovrebbe essere piuttosto definita come estetica occidentale, è stata legata alla politica fin dalla sua formazione nel XVIII secolo. La ragione principale di questa stretta relazione tra estetica occidentale e politica è il fatto che l'estetica filosofica, così come le pratiche artistiche canonizzate da tale teoria, hanno svolto un ruolo importante nella formazione delle società borghesi occidentali. Queste società erano e sono strutturate dalle molteplici divisioni di potere del capitalismo lungo assi come la classe, la razza, il genere o l'età, e ruotano attorno al presupposto che le società cosiddette moderne (in contrapposizione a quelle “primitive” o premoderne) presuppongono sfere sociali autonome come la politica, la scienza, l'arte o la religione. In questo contesto diventa più che comprensibile che l'autonomia estetica sia un concetto così contestato. Mentre alcuni teorici (ad esempio, Adorno o Rancière) sostengono che l'autonomia estetica debba e possa essere utilizzata come spazio di critica, altri sottolineano l'innocuità, se non la vera e propria impotenza, delle pratiche estetiche autonome (Benjamin, Brecht). Alla luce delle miriadi di dibattiti ripetitivi a favore e contro il potenziale politico (o depoliticizzante) dell'autonomia estetica, alcuni estetologi (ad esempio, Glissant o Guattari) hanno cercato un'alternativa più radicale. Il loro suggerimento è di allargare il concetto di estetica, in modo che non sia più limitato ai confini delle opere d'arte e del campo dell'arte nel suo complesso. La loro proposta è quella di immaginare un'estetica delle relazioni sensuali, spesso chiamate affetti, che si estendono al di là delle sfere sociali apparentemente autonome e che trascendono anche le relazioni umane. Tuttavia, questo modo di pensare in termini di relazioni sensuali non è del tutto nuovo. Se ne trovano tracce, ad esempio, anche negli scritti di Baumgarten, autore del primo libro di estetica.

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Note

1 Con questo non si vuole negare il fatto che la cultura greco-romana si sia occupata di questioni relative alla bellezza, alle arti e all'educazione estetica, tanto che si potrebbe parlare di estetica antica anche se questo campo non era ancora stato riconosciuto come un sottocampo della filosofia. Si veda il Capitolo 11 di Matthew Sharpe in questo volume.

2 Tuttavia dobbiamo riconoscere che nella Critica del Giudizio di Kant ci sono alcuni passaggi che accennano a possibili connessioni tra il bello e il bene, connessioni cioè che vengono trattate come “accenni”, “simboli” o “analogie2 e che rimangono piuttosto vaghe. Il desiderio di tali connessioni, che tuttavia vanno controcorrente rispetto alla prima parte del libro, intitolata “Analitica del bello”, è ben presente nell'“Introduzione” e nei §§ 42 e 59.

3 Tuttavia, Kant metterà in discussione, se non rifiuterà completamente, questa affermazione nella sua discussione sul sensus communis (si veda il prossimo paragrafo).

4 Qui e altrove nel corso del capitolo le autrici usano il termine whitewashing, letteralmente "imbiancatura", ma che in senso figurato è usato anche per indicare l'azione di mettere i bianchi in buona luce. [N.d.T.]

5 In modo simile lo studio di Bourdieu Le regole dell'arte (1992) analizza l'emergere del campo artistico francese e delle sue istituzioni. Tuttavia, a differenza delle cponcezioni di Gikandi e Mörsch sugli inizi delle istituzioni artistiche inglesi, gli aspetti della colonizzazione sono palesemente assenti nel libro di Bourdieu. D'altra parte vogliamo sottolineare che i contributi alla critica istituzionale non si trovano solo nel regno della teoria. Piuttosto, la critica istituzionale è diventata un campo importante delle pratiche artistiche del XX secolo (cfr. Alberro e Stimson 2009).

6 Theodor W. Adorno ([1970] 1997) ha una posizione simile.

7 Seguendo la Poetica di Aristotele che formulava regole di rappresentazione piuttosto rigide: quali contenuti e quali forme erano legittimate in quale modo per quali fini (Aristotele [c. 350 a.C.] 1964).

8 Benjamin ha dato una nuova interpretazione al termine “auratico” o “aura”. La considera una qualità attribuita (nell'esperienza quasi religiosa della contemplazione borghese) a un originale artistico unico e irraggiungibile. Secondo la teoria estetica borghese, questo originale rimane inaccessibile pur essendo presente nello spazio e nel tempo (”qui e ora”). Come “fenomeno unico di una distanza, per quanto vicina possa essere” (Benjamin 1969, 222), l'aura dell'opera d'arte appassisce nell'era della riproduzione meccanica. Attraverso la riproduzione meccanica, la presenza dell'originale e l'inaccessibilità della sua autenticità auratica sono sostituite da una molteplicità di riproduzioni e dal loro potenziale “di incontrare l'osservatore a metà strada” (220). In relazione sia allo spazio che al tempo, l'originale apparentemente distante si avvicina a un pubblico di massa.

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Introduction to Philosophy: Aesthetic Theory and Practice, di Andrew Broady, Elizabeth Burns Coleman, Pierre Fasula, Richard Hudson-Miles, Ines Kleesattel, Xiao Ouyang, Matteo Ravasio, Yuriko Saito, Elizabeth Scarbrough, Matthew Sharpe, Ruth Sonderegger, Valery Vino e Alexander Westenberg; a cura di Valery Vino e Christina Hendricks, prodotto con il supporto della Rebus Community. L'originale è disponibile gratuitamente con licenza CC BY 4.0 all'url: https://press.rebus.community/intro-to-phil-aesthetics. Edizione italiana a cura di Antonio Vigilante