Educazione estetica, trascuratezza e cultura oggi

Introduzione: una questione culturale

Nonostante la sua reputazione ambivalente, la Critica del giudizio di Immanuel Kant (1790) segna un momento storico, poiché sancisce l'indipendenza dell'indagine estetica dalle altre branche della filosofia. Kant non era interessato a sviluppare una teoria dell'educazione estetica, un modello esperienziale che si occupasse del benessere individuale e collettivo. Tuttavia, egli fornisce un'argomentazione contorta (e ancora stimolante) a favore della tesi che la riflessione estetica sia favorevole alla vita morale (§§ 42, 59, 60), un'affermazione significativa ripresa da Friedrich Schiller (1759-1805) nelle Lettere sull'educazione estetica dell'uomo ([1795] 2019). Da un lato Schiller segue Kant e sostiene che coltivando il giudizio estetico si impara a sentire la libertà, aprendo così la strada all'incarnazione delle nostre predisposizioni morali (Lettere 2, 3, 8); così concepita, l'estetica può servire come mezzo per attualizzare l'obiettivo ultimo della filosofia pratica, cioè la fioritura collettiva. Secondo questa visione, l'attività estetica è di secondaria importanza per tale fioritura, poiché non influisce direttamente sulla vita morale. D'altra parte Schiller tenta anche di sviluppare una posizione alternativa — che culmina nella nozione politica di “Stato estetico” — e sostiene che la pratica collettiva dell'estetica è di per sé il segno distintivo di una società fiorente (Lettere 6-7). Sebbene Schiller non abbia mai conciliato le due posizioni, confondendo molti lettori, la sua opera è comunque degna di nota nel contesto di questo capitolo per due motivi.

In primo luogo, sembra che per Schiller sia necessario progettare e promuovere l'educazione estetica (o l'alfabetizzazione) per essere in grado di valutare le sue prospettive per la prosperità umana nel mondo. In secondo luogo, man mano che sviluppa le sue riflessioni in merito emerge un'altra intuizione cruciale, ossia che nessuna fioritura è raggiungibile in assenza di un'alfabetizzazione estetica. È inoltre degno di nota il fatto che, per quanto riguarda l'impatto culturale, la grandiosa teoria di Kant ha eclissato l'orientamento pragmatico dell'indagine estetica di Schiller.

Uno studio dell'estetica implica una panoramica sistematica e critica di una molteplicità di argomenti, alcuni canonici, altri marginali e nuovi, un compito intrapreso in questo volume, anche se è necessario uno sforzo di collaborazione molto più ampio per rendere giustizia a una disciplina in espansione. Mettendo in luce le principali aree abitualmente trascurate che impediscono la maturazione dell'alfabetizzazione estetica contemporanea, questo capitolo analizza due movimenti principali, l'Estetica Quotidiana e la Somaestetica, mettendo in luce un nuovo quadro culturale per l'estetica. Di seguito viene fornita un'introduzione a queste due sottosezioni dell'estetica, per poi valutarne criticamente le aspirazioni culturali. L'Estetica Quotidiana e la Somaestetica approfondiscono, ampliano e diversificano radicalmente il nostro apprezzamento dell'umanità, una missione dell'estetica prevista da Schiller, ma questi progetti filosofici sono all'altezza delle circostanze globali contemporanee?

Come disciplina accademica, l'estetica filosofica è in piena fioritura. 1 Sebbene non sia raro tra i filosofi pensare all'estetica come a una questione teorica, si può notare un tangibile cambiamento pragmatico nell'estetica, che promette nuovi stili di vita. A livello di cultura, che coinvolge le norme e le preferenze sociali, le prassi istituzionali e, soprattutto, le nostre aspirazioni e i nostri valori, questo fatto può essere spiegato come segue. Come disciplina pratica, l'estetica è allo stato nascente. Molti fattori contribuiscono a questo problema, tra cui due meritano la nostra attenzione. La divisione tra sfere di valori culturali, propria dello spirito altamente specializzato del nostro mondo globalizzato, ha portato alla perdita dell'esperienza un tempo comune dell'estetica come parte integrante della propria vita, evidente in molte tradizioni non occidentali. Inoltre, la filosofia accademica, un approccio contemporaneo dominante all'attività filosofica, è, in linea di massima, un'impresa orientata alla teoria. Attualmente, un accademico “preparato” a teorizzare, per usare il termine di Ian Hunter, è il tipo di persona che viene identificata con la figura del filosofo (2002, 2007).2 Ogni stile di vita filosofico ha i suoi limiti! Mentre il filosofo può nominalmente impegnarsi in qualsiasi attività critica (come, ad esempio, lavorare con i detenuti o fare giornalismo), la formazione universitaria si concentra sull'impegno con filosofi professionisti, testi e compagni di studio, come modo per imparare a scrivere, presentare e pubblicare articoli.3 Ma la filosofia non può davvero fiorire come mero esercizio teorico, e questo comporta un ampio divario tra la formazione filosofica e il pubblico. L'educazione estetica deve ancora uscire dal regno di uno stimolante discorso teorico e avere un'influenza tangibile sulla cultura quotidiana. Sia l'Estetica Quotidiana che la Somaestetica sembrano essere consapevoli di questo problema e sviluppano modelli pragmatici per affrontarlo.

Per promuovere una cultura pratica dell'estetica, che finalmente emergerebbe come opzione praticabile, è essenziale considerare l'estetica come una modalità di esistenza che si può seguire per imparare ad apprezzare il nostro mondo. Insegnandoci a coinvolgere, valutare e coltivare la percezione dei sensi, i sentimenti e gli affetti, l'estetica è un modo essenziale di sperimentare la vita, un modo che è stato codificato ed estraniato dalle nostre attività quotidiane. Abbiamo la fortuna di vivere in un'epoca in cui è diventato tangibile il fatto che coltivare l'intelligenza estetica è necessario per comprendere la persona umana, le nostre relazioni reciproche, i nostri ambienti e le nostre responsabilità. In misura significativa, è grazie a due filosofi contemporanei, in piedi sulle spalle di giganti, che questo cambiamento nel pensiero sull'estetica ha avuto luogo: Yuriko Saito e Richard Shusterman. Questo capitolo evidenzia due progetti pragmatici che si spingono oltre i limiti dell'indagine estetica contemporanea. Entrambi i progetti sono a favore di nuovi modi di pensare che implicano considerazioni pratiche che permettono di correggere l'ottica attraverso la quale valutiamo l'educazione estetica come impresa culturale. L'Estetica Quotidiana [Everyday Aesthetics] (d'ora in poi EA) di Saito e la Somaestetica [Somaesthetics] (d'ora in poi SA) di Shusterman sono entrambi fenomeni controculturali: mirano a far progredire la cultura sovvertendone alcune basi. Di conseguenza, la nostra considerazione dei rispettivi modelli coinciderà con una critica di alcune importanti norme culturali radicate. Come impareremo, il percorso che porta alla possibilità di pensare a una nicchia educativa vitale di alfabetizzazione estetica è contorto da una storia di negligenza, che è un giudizio errato e dannoso. Per stabilire le basi lungimiranti dell'alfabetizzazione, quindi, è essenziale fare i conti con gli errori del passato.

Questo capitolo si propone di delucidare EA e SA attingendo alla letteratura in materia, insieme alla storia della filosofia, che deve sempre informare il giudizio del filosofo. Nella prima sezione viene spiegato il nocciolo dell'approccio di Saito alla riscoperta della sfera trascurata dell'EA. Poi, per essere in grado di apprezzare il progetto di Shusterman, consideriamo una serie di prospettive di Platone, Cartesio, Spinoza e Nietzsche sullo status del corpo in filosofia. Nella terza sezione incontriamo il “soma”, un corpo vivente e potenziato, oggetto e soggetto di un deciso abbandono nella filosofia, nell'estetica e, più in generale, nella cultura occidentale. Nella conclusione si sosterrà che, nonostante il notevole potenziale di riorientamento dei nostri modi di pensare la vita estetica, sia EA che SA rappresentano filosofie di cura urbana che trascurano la natura selvaggia e non sono all'altezza delle attuali circostanze globali.

Ricreare la vita estetica: l’estetica del quotidiano

“Ad ogni svolta della mia ricerca e della mia indagine, ho trovato una gemma in giro, pronta per essere lucidata e portata alla vita”, scrive Saito invitando il lettore a un discorso sull'estetica del quotidiano (2007, 2).4 Come molti estetologi contemporanei, Saito si sente in contrasto con la convinzione prevalente che presenta l'estetica come un'indagine filosofica orientata all'arte. Sebbene gran parte della storia estetica dell'Occidente sia attratta da questioni legate all'arte, Saito si preoccupa di stabilire che l'estetica comprende un territorio più ampio di quello dell'arte, che coinvolge la vita intera. Per questo motivo una questione importante che Saito affronta nel suo libro fondamentale Everyday Aesthetics (2007) è la portata problematica dell'estetica occidentale. Trascurando gli oggetti ordinari come fonti di intuizione filosofica (estetica), la tradizione filosofica occidentale ha trascurato la possibilità di sviluppare una teoria capace di migliorare le questioni globali grazie ad esiti apparentemente banali. Secondo Saito è evidente che quest'ombra pervasiva di negligenza è gettata sulle gemme emarginate della vita estetica dalla lunga tradizione che identifica l'estetica con qualcosa di straordinario.

Seguiamo Saito per distinguere tra due tipi dominanti di esperienza che hanno guidato l'estetica fino ad oggi: “l'arte e le esperienze estetiche speciali” (2007, 11; cfr. anche 52). Tale estetica favorisce l'atteggiamento dello spettatore, una persona che di base ha un approccio alla dimensione estetica contemplativo o riflessivo (2007, 4). Episodi estetici particolari si distinguono dall'ordinario in quanto suscitano risposte estetiche sorprendenti. Ad esempio, la partecipazione a fenomeni naturali sublimi come le bufere di neve e le aurore, o semplicemente eventi memorabili come “un episodio comico visto per strada” (2007, 4; cfr. anche 10, 43, 52): questi oggetti sollecitano direttamente e spesso in modo drammatico la nostra sensibilità estetica e ci invitano, per così dire, a contemplarli. Le teorie occidentali canoniche, inoltre, invitano i lettori a un'estetica definita da una profonda associazione con l'arte. Come osserva Saito, un'opera d'arte “è quasi sempre considerata come un modello per eccellenza di oggetto estetico” (2007, 13). Per Saito l'arte è “qualcosa di altamente specializzato e isolato dalle nostre preoccupazioni quotidiane”: l'arte avvolge gli oggetti che attribuiamo al cosiddetto mondo dell'arte (2007, 12). Un'estetica di questo tipo fornisce un accesso ristretto alla vita estetica. In particolare, a causa di una serie di aspettative culturali, siamo portati ad “attenerci al carattere inquadrato di un oggetto d'arte e al modo convenzionalmente concordato di viverlo” (2007, 22). Una scultura di Venere in un bar locale, l'Ecce Homo di Bosch allo Städel Museum, un graffito pornografico sulla sede del Parlamento: per quanto si possano allargare i confini dell'arte, la comprensione occidentale della pratica artistica ci costringe a riflettere su questi oggetti e a valutarli come realizzati dalla figura di un artista che ha creato ciò che si annuncia come nient'altro che un'opera d'arte. Di conseguenza, si è curiosi di sapere “quando, dove, in quali circostanze e con quale tipo di intenzione l'oggetto è stato creato” (2007, 22; cfr. anche 33, 39-40). Inoltre, dato che attribuiamo a questi oggetti lo status di arte, ci si aspetta che la nostra riflessione sia guidata dalle norme in vigore nel mondo dell'arte: per esempio, questa scultura di Venere è una porcheria amatoriale, mentre l'opera di Bosch è un capolavoro inquietante e senza tempo, e i graffiti sono un'arma artistica che denuncia il farsesco e l'ossessivo della politica. In ogni caso tali oggetti creati dall'uomo acquisiscono uno status privilegiato nella nostra cultura, nella misura in cui “l'arte è concepita come qualcosa di diverso dalle nostre vicende quotidiane” (2007, 36; cfr. anche 40). Pertanto questa prospettiva pervasiva sull'arte ci impedisce di associare le opere d'arte al flusso regolare della vita quotidiana. Secondo Saito l'arte è “un'eccezione o un commento agli oggetti e agli affari quotidiani” (2007, 40).

Un problema importante per l'estetica occidentale è che quando l'estetica è associata a eventi speciali o alle arti, gli oggetti e le pratiche che non presentano caratteristiche speciali o artistiche identificabili sono inclini a essere liquidati come irrilevanti per l'educazione e la vita estetica. Inoltre, nella misura in cui la pratica estetica viene confusa con l'attività nel regno degli oggetti speciali, si confonde con un approccio strettamente contemplativo, piuttosto che pratico. Il valore di questi oggetti privilegiati di interesse estetico, a un livello normativo profondo, mette attualmente in ombra il valore degli oggetti più comuni (compreso, come sostiene Shusterman, il corpo umano). Per contrastare questa norma, Saito suggerisce di “allargare la nostra prospettiva adottando un punto di vista multiculturale e globale”, in base al quale “ci rendiamo conto che ciò che è stato considerato come estetica mainstream basata sull'arte e sulla sua esperienza risulta essere specifica e circoscritta dalla pratica principalmente degli ultimi due secoli in Occidente” (2007, 12).

Un modo per caratterizzare l'EA, quindi, è quello di notare che questo approccio sfida i limiti della tradizione estetica occidentale, spingendoci a guardare oltre la nostra cultura immediata in modo da intrattenere, ed eventualmente adottare, prospettive influenzate da altre tradizioni. In questo sforzo creativo l'immanenza e la diversità della vita estetica vengono alla ribalta (Saito 2007, 52-3). Un approccio estetico popolare, d'altra parte, inibisce la comprensione e l'apprezzamento di una vita estetica più ampia:

La modalità-spettatore, pur essendo la più appropriata e gratificante rispetto all'arte così com’è comunemente intesa, non consente di far esperienza in modo soddisfacente della non-arte. Possiamo apprezzare il valore estetico di una sedia, di una mela, di un paesaggio e della pioggia come se fossero un'opera scultorea, un dipinto paesaggistico o un brano musicale, diventando un puro spettatore/ascoltatore. Tuttavia il più delle volte sperimentiamo una sedia non solo ispezionando la sua forma e il suo colore, ma anche toccando il suo tessuto, sedendoci, appoggiandoci e muovendola, per percepirne la consistenza, il comfort e la stabilità. (Saito 2007, 35)

Per integrare la modalità convenzionale dello spettatore, Saito attinge alla tradizione giapponese e propone un modo indipendente di relazionarsi esteticamente con l'ambiente circostante, caratterizzato da un atteggiamento pratico che consente di apprezzare l'ordinario così com'è. La modalità dello spettatore, al contrario, non solo è spesso guidata da norme artistiche, ma non porta necessariamente a prendere decisioni (2007, 128). Riflettendo su un motivo iscritto su una piastrella persiana in un negozio, ci si può avventurare nell'esplorazione della cultura iraniana, ma questo incontro viene prima elaborato in modo riflessivo, comportando solo la possibilità di un conseguente processo decisionale. Al contrario, l'EA è un approccio “orientato all'azione” che localizza l'estetica negli ambienti “fin troppo familiari” (2007, 4; si veda anche 51). Saito ci incoraggia a guardare con attenzione “gli ambienti e gli oggetti con cui lavoriamo o viviamo ogni giorno nel senso più letterale” (2007, 52). Le lezioni estetiche si nascondono nelle cose più comuni: l’EA “illumina i potenziali estetici normalmente trascurati, ma simili a gemme, nascosti dietro la facciata banale, mondana e comune” (2007, 50). Prestando attenzione all'ordinario, la nostra “vita estetica si diversifica... [e] quindi si arricchisce”: quando ogni oggetto viene considerato “alle sue condizioni”, piuttosto che in qualche modo gerarchico, può accadere che ne accertiamo il valore, così come si trova davanti a noi, e quindi impariamo qualcosa sul nostro agire (2007, 11, 128).

L'estetica del luogo comune permea la vita, ed è alla vita urbana che Saito tende a fare riferimento per “allargare il nostro orizzonte estetico”: cenare fuori, passeggiare per strada, fare acquisti al mercato, passare il tempo al lavoro, a casa e nel quartiere (2007, 130). Contrapponendosi alla sensibilità estetica occidentale, Saito richiama l'attenzione sulle “qualità estetiche della superficie quotidiana” esibita dagli oggetti nei nostri ambienti abituali, qualità a cui siamo soggetti indipendentemente dalla nostra posizione sociale, dalla “formazione o dalla raffinatezza culturale” (2007, 153). Così, per integrare il valore estetico più evidente (e comunque interessante) degli oggetti artistici e speciali, Saito avanza una nuova forma di alfabetizzazione estetica mettendo in evidenza le qualità degli oggetti banali.

Nel regno dell'ordinario, del caotico, dell'abbandonato, del disordinato, del decadente, del rovinato, tutti questi “pasticci” tendono a comunicare fatti curiosi e potenzialmente significativi non solo sui nostri ambienti mutevoli, ma anche sui nostri atteggiamenti nei loro confronti. A differenza delle qualità artistiche, spesso appannaggio delle classi più abbienti, “le qualità estetiche quotidiane sono di interesse estetico universale” e non richiedono una formazione particolare per essere apprezzate (Saito 2007, 153). Tali qualità vengono registrate abitualmente senza riflettere troppo sull'esperienza, ed è proprio questa la lacuna che Saito colma. Le pratiche ordinarie, gli oggetti e le loro qualità sono integrati nella nostra routine quotidiana e quindi un'attenzione acuta ad essi può comportare serie considerazioni pratiche. L'esterno di una casa o una ciotola, un paio di scarpe o la pelle del viso, una toilette pubblica o un'autostrada: in genere, tutti questi oggetti si presentano originariamente in condizioni perfette che, come tutte le cose transitorie, si deteriorano col tempo. La transitorietà, nota come wabi nella tradizione giapponese, è la proprietà più comune degli oggetti EA (2007, 199). Certo, le cose possono essere curate per invecchiare con grazia, ma tutto perde funzionalità nel tempo, soprattutto se viene ignorato. È una convenzione essere indifferenti o trascurare ciò che non è utile o attraente, che si tratti di una zanzara o di una camicia logora, in una parola, di cose che mostrano poco valore esplicito per noi. Tuttavia, secondo Saito, l'attenzione alle nostre reazioni alle qualità EA può stimolarci a pensare e ad agire in modo consapevole: “La nostra reazione negativa al loro aspetto ci spinge a impegnarci nell'attività di ringiovanire, restaurare, abbellire, rinnovare, ristrutturare, rifinire, ricostruire, rinfrescare e dare nuova vita ai vecchi oggetti, a meno che non siano troppo rovinati per essere recuperati, nel qual caso li scartiamo semplicemente” (2007, 159; si veda anche 202).

Questo passaggio illustra il pragmatismo della teoria estetica di Saito, che sottolinea gli elementi chiave necessari per la crescita morale e civica, che culmina in una vita morale: “comprendere, apprezzare e rispettare la realtà dell'altro, inteso non solo come altre persone ma anche come altro-da-umani” (2007, 130; si veda anche 240). In poche parole, Saito spera che l'attenzione estetica al quotidiano favorisca un atteggiamento di interesse e cura per l'altro. Supponiamo che i bordi del colletto di una camicia siano consumati. Una possibilità è quella di sentire l'impulso di scartarla (e di comprarne una nuova). Un'altra è quella di sentirsi turbati e di cercare di aggiustarla, perché una buona camicia (o qualsiasi cosa, come una relazione), dopo alcuni anni di utilizzo, tende ad acquisire un carattere proprio, che riflette i valori della persona.

Allo stesso modo, la forza della teoria di Saito si manifesta nel fatto che può essere applicata a diversi tipi di fenomeni che presentano proprietà di superficie che possono essere date per scontate in determinate circostanze. Saito utilizza l’esempio urbano suggestivo di “un'area ghetto” che mostra “finestre rotte, porte e finestre sbarrate, lotti abbandonati infestati da erbacce e ratti, membri di bande che bighellonano agli angoli delle strade molestando i passanti, strade disseminate di rifiuti che puzzano di urina e cibo marcio” (2007, 140). In questo ambiente EA, una persona attenta può scoprire “un senso di disperazione e di mancanza di speranza”, uno stato esistenziale stimolante, nonché un incentivo a riflettere sulla “più eloquente illustrazione dei mali sociali”, tra i quali possiamo anche citare quelli esibiti dagli esempi opposti di “espressione quasi oscena di un'eccessiva ricchezza” (2007, 141). Ville, gioielli lussuosi, veicoli d'élite e altri beni materiali e investimenti che danno un senso di prestigio e che ci costano la terra, se considerati attraverso la lente dell'EA, sono anche abbastanza potenti da gettare una persona in uno stato di ribellione e angoscia. È difficile conciliare, ad esempio, lo splendore luminoso del proprio orologio di platino con le devastazioni causate per estrarre quello splendore.

Per concludere questa sezione, consideriamo due domande. In primo luogo, data l'enfasi di Saito sulla separazione dal mondo dell'arte e dalle sue norme, cosa guida l'attività di EA? A differenza di una teoria incentrata sull'arte, l'EA non offre standard consolidati per guidarci e motivarci. Come dice Saito, a causa dell’“assenza di accordi convenzionali o istituzionali su come sperimentare oggetti e attività non artistiche, siamo anche liberi di impegnarci letteralmente nell'esperienza estetica in qualsiasi modo riteniamo opportuno. […] L'unica guida, se così possiamo chiamarla, può essere in termini di ciò che è esteticamente più gratificante” (2007, 20-1).

La teoria di Saito si inserisce quindi nel filone filosofico istituito da Immanuel Kant (1724-1804), che celebra l'esperienza della libertà come segno della vita estetica. Per Kant, l'esempio massimo di libertà estetica è il gioco contemplativo della mente con un fiore (Kant [1790] 2014). Staccandosi dai preconcetti estetici consolidati, Saito ci invita a entrare nel terreno in cui si trova un senso di libertà nell'affrontare qualsiasi ambiente. Nel regno dell’“estetica”, sostiene Saito, “includo tutte le reazioni che abbiamo nei confronti delle qualità sensoriali e/o progettuali di qualsiasi oggetto, fenomeno o attività” (2007, 10). Saito sostiene quindi una teoria dell'estetica espansiva e allo stesso tempo inclusiva. In questo senso, il lavoro di Saito sottolinea “l'urgente necessità di coltivare l'alfabetizzazione estetica”, che è stata messa in ombra dagli approcci meramente contemplativi all'estetica (2007, 243). Con la pratica, l'approccio di EA sviluppa un senso di appartenenza al luogo comune, generando sia la spontaneità che la responsabilità proprie di una vita estetica espansiva.

In secondo luogo, qual è l'obiettivo generale di Saito? Come estetologa, Saito è interessato a indagare la soglia della sensibilità estetica che è stata lasciata in sospeso grazie alle tendenze della tradizione filosofica occidentale. Così, il compito ultimo dell’EA è la ricerca della conoscenza di sé, attraverso l'impegno estetico — l'essere umano alla luce della nostra attenzione all'ambiente circostante e alle nostre risposte ad esso. Di conseguenza, la teoria di Saito è inestricabile dalle preoccupazioni morali (2007, 238). Teoria pragmatica, l'EA è la filosofia della “cura”, una profonda preoccupazione per il nostro mondo (2007, 240). Saito spera che l'EA comporti un necessario cambiamento culturale: “Liberando il discorso estetico dai confini di uno specifico tipo di oggetto o di esperienza e illuminando quanto profondamente radicate e prevalenti siano le considerazioni estetiche nella nostra banale esistenza quotidiana, spero di restituire all'estetica il posto che le spetta nella nostra vita quotidiana e di reclamare il suo status nel plasmare noi e il mondo” (2007, 12).

Ora, sebbene il potere dell'EA di influenzare la cultura sia davvero potente, non condivido l'ottimismo di Saito, poiché la sua linea di argomentazione, pur adottando una lente multiculturale, si basa sulle preferenze culturali che definiscono lo stile di vita occidentale (urbano). Come mostrato sopra, Saito è consapevole che, nella misura in cui ci intratteniamo con le culture non occidentali, vive o morte, possono presentarsi alternative curiose, tra cui quella che può affrontare una delicata tensione tra arte e non-arte. Altrettanto importante è il fatto che, mentre la teoria di Saito abbraccia tutti i tipi di ambienti, il più ampio di tutti — la natura selvaggia — è considerato da un punto di vista urbano. Entrambi i fatti possono segnare forti differenze tra le possibili visioni del mondo, e torneremo su questa questione nella conclusione.

Scoprire la coscienza del corpo

Nella sezione precedente abbiamo visto che quello di una vita estetica è un progetto ampio, perché i nostri ambienti, gli oggetti e gli eventi che vi si trovano forniscono infiniti stimoli dinamici al pensiero e all'azione. Tuttavia è essenziale osservare che, nella filosofia e nella cultura occidentale, il ruolo di un elemento chiave dell'impegno estetico è stato messo a tacere, e il progetto di Saito affronta solo brevemente questo problema significativo.

Questo non vuol dire che Saito non abbia una visione filosofica di ampio respiro, in quanto riconosce l'importanza del corpo umano. Si spinge fino a osservare che “siamo: corpo e mente” e quindi “l'esperienza estetica orientata al corpo... [è] estremamente importante in quanto... barometro della nostra salute e sicurezza, determinando in ultima analisi la qualità della vita” (2007, 225). Nel suo libro più recente, Saito dedica addirittura una sezione all’“estetica del corpo” che collega alla vita morale: “I movimenti del corpo, le espressioni facciali e il tono della voce” (2017, 175; si veda anche 176-186).

Tuttavia il potenziale sconosciuto della comprensione filosofica derivante dal corpo umano rimane un aspetto sorprendentemente trascurato non solo nel suo lavoro, ma anche nel pensiero occidentale fino ad oggi. Theodor Adorno (1903-1969) e Max Horkheimer (1895-1973) notarono nel 1947, subito dopo i massacri della seconda guerra mondiale:

L’odio-amore per il corpo tinge di sé tutta la civiltà moderna. Il corpo, come ciò che è inferiore e asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come ciò che è vietato, reificato, estraniato. Solo la civiltà conosce il corpo come una cosa che si può possedere, solo in essa esso si è separato dallo spirito – quintessenza del potere e del comando – come oggetto, cosa morta, corpus. ([1947] 2010, 250-251)

Fortunatamente, l'estetica ha recentemente assistito a un'altra svolta innovativa nella SA di Shusterman. Sostenendo la necessità di coltivare il corpo umano per realizzare la nostra umanità, un'esplorazione che apra nuovi orizzonti, la SA apre la strada a una vita estetica ancora più ampia. Il lettore potrebbe voler saltare le prossime due sottosezioni per considerare la sostanza di SA spiegata più avanti. Tuttavia, se il nostro obiettivo è un cambiamento culturale, il tentativo di accertare le basi dell'alfabetizzazione estetica deve mettere in luce le radici profonde dell'abbandono filosofico del corpo in filosofia. La comprensione degli errori epocali – le convinzioni che limitano il fiorire umano su larga scala – è un compito necessario per promuovere un'educazione attenta, che si tratti di storia, spiritualità, politica o estetica.

Platone e Socrate

Possiamo discutere e confrontarci esteticamente con ogni tipo di corpo materiale. Soprattutto il cosmo, o gli asteroidi, il nostro pianeta, le catene montuose, i paesaggi urbani, le sculture, gli alberi, le piante e i funghi, gli animali e gli insetti, le stelle, i fiocchi di neve e le gocce d'acqua, persino gli atomi, sono corpi esteticamente e intellettualmente curiosi! Tuttavia, il più intimo e tangibile di tutti – il corpo umano – è oggetto di una lunga tradizione di negligenza. Il corpo è solo un contenitore, un intricato meccanismo biologico che dobbiamo mantenere per imparare ad apprezzare la vita della mente. Quali sono le ragioni canoniche che sostengono la negligenza del corpo in filosofia? È possibile che questa posizione, abbracciata da pensatori di tutte le epoche e di tutte le culture, abbia solidificato e preservato una grande quantità di ignoranza, uno stato che i filosofi tradizionalmente mirano a eliminare?

Nella tradizione filosofica occidentale è Platone (429-347 a.C. circa) che per primo traccia una severa distinzione tra mente e corpo. Il corpo deve essere superato. Platone incanala una geniale forza retorica in una rappresentazione letteraria del suo maestro Socrate, la cui vera personalità è più difficile da immaginare di quella di Platone, e che rimane tuttora uno dei maestri scettici più misteriosi, audaci e influenti. Nei dialoghi di Platone vengono elaborate una serie di tesi; Socrate stabilisce, tra molte altre cose importanti, i limiti dell'indagine filosofica. Per Platone la spinta a fare filosofia è quella che avvicina il filosofo al divino, anche a spese del corpo. Questa pulsione è chiamata eros o desiderio amoroso, un termine che oggi possiamo usare liberamente per l'arte di fare l'amore. Tuttavia l'arte a cui Platone si riferisce come ta erotika è quella dell'elenchus, il processo di affermazione e confutazione di una posizione filosofica, finalizzato alla comprensione del significato, alla fortificazione della mente, e che in Platone ha infine un fondamento morale (Simposio, 177d8-9; Liside, 205e2-206a2). 5 Questo esercizio intellettuale è inestricabile dalla passione o desiderio – eros – che guida e sostiene la ricerca della conoscenza, e questo desiderio merita l'attenzione degli educatori.6 Sia per Socrate che per Platone la conoscenza a cui si tende è quella della virtù morale (arēte), attraverso il coraggio, la temperanza o la saggezza pratica. È fondamentale sottolineare che per Platone il filosofo, in primo luogo, non è spinto né da prospettive di carriera, né da prestigio, né da comodità, ma da una forma di amore, una passione per “la conoscenza suprema il cui unico oggetto è la bellezza assoluta” (Simposio, 207b). La filosofa socratica è soddisfatta nella misura in cui raggiunge la saggezza pratica, una totalità di conoscenze necessarie alla vita esaminata, la vita per cui vale la pena vivere, un compito filosofico che sembra impossibile da realizzare completamente, come l'idea trascendente della “bellezza assoluta”, o la propria morte.

Altrettanto importante è che Platone chiarisca che non dobbiamo confondere questo alto esercizio con le mere voglie corporali. Nel Simposio, usando la sacerdotessa Diotima come portavoce per istruire Socrate (e noi), Platone getta un'ombra epocale di dubbio sullo status del corpo per le questioni che favoriscono la prosperità:

“Che cosa, dunque, noi dovremmo pensare – disse –, se ad uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non mescolato, non affatto contaminato da carni umane e da colori e da altre piccolezze mortali, ma potesse contemplare come forma unica lo stesso Bello divino? “0 forse tu ritieni – disse – che sarebbe una vita che vale poco quella di un uomo che guardasse là e che contemplasse quel Bello con ciò con cui si deve contemplare, e rimanesse unito ad esso? (211d-212a; Platone 2000, 518)

Il corpo umano è qui identificato con “una massa di spazzatura deperibile” che il filosofo deve saper accostare alla “facoltà capace di vedere... la verità”, cioè la facoltà contemplativa che chiamiamo mente (212a). Nessuna intuizione filosofica degna di nota può quindi essere acquisita in virtù del corpo, fonte di appetiti che bisogna sforzarsi di moderare (Fedro, 64e-67a).

Questo attacco al corpo si comprende meglio nel contesto di due affermazioni monolitiche che si trovano nell'Apologia di Socrate, la versione drammatizzata da Platone del discorso di Socrate al suo processo, che lo porta alla morte. In primo luogo, Socrate si rivolge ai suoi concittadini, sfidando il loro senso del dovere civico e anche, implicitamente, noi filosofi: “Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della Città più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnarne il più possibile e della fama e dell’onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventi il più possibile buona?” (29d-e; Platone 2000, 35).

Una cura filosofica in questo senso platonico, quindi, implica la cura della propria mente, un modo di vivere imperniato sull'elenchus, la cui pratica permette di distinguere tra ciò che vale la pena perseguire nella propria vita, in un determinato contesto culturale, e ciò che non merita la nostra attenzione e i nostri sforzi. Platone insiste nell'Apologia di Socrate sul fatto che "non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima in modo che diventi buona il più possibile” (30b; Platone 2000, 35-6). A questa condizione, è possibile un'autentica vita filosofica, che è inscritta nelle parole immortali di Socrate che si suicidò bevendo la cicuta: “una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta” (38a; Platone 2000, 42). Non aveva paura di morire, presumibilmente, perché il valore delle scoperte della sua mente eclissava il valore dell'esistenza del suo corpo terreno. Come sostiene Platone nel Fedone, “precisamente questo è il compito dei filosofi: sciogliere e separare l’anima dal corpo” (67d; Platone 2000, 79), e una morte dignitosa in nome della verità non è l'opzione peggiore.

Riassumendo: Platone nega al corpo lo status di fonte essenziale per una vita esaminata. Tuttavia, prima di proseguire, è importante notare che questa forte posizione filosofica emerge in una società antica che, in effetti, valorizzava la corporeità, includendo non solo una pratica sistematica della ginnastica, ma anche un esplicito – in contrasto con le tradizioni (post)monoteistiche – interesse per l'esperienza erotica. Infatti, sia Senofonte (431-354 a.C.), l'allievo meno popolare di Socrate, sia Diogene Laerzio (180-240 d.C.) riferiscono che Socrate ammoniva a coltivare il corpo per evitare di commettere “gravi errori” (Memorabili, III, 12; Senofonte 2013, 521) o giudizi poco informati (Laerzio 2006). La condanna del corpo, forse, potrebbe essere attribuita con maggiore precisione a Platone, il cui spirito era attratto dal regno trascendente delle idee e della conoscenza morale, piuttosto che dalle strade e dai bassifondi di Atene. Come possiamo spiegare il fatto che Platone condanni il corpo, nonostante sia stato nutrito da una cultura aristocratica che era orgogliosa della coltivazione del corpo? Un modo per spiegarlo è notare che, anche se disciplinato, il corpo può ancora funzionare come strumento per esibire la propria forza, il proprio potere e il proprio dominio: uno strumento per la guerra, l’amoreggiamento e lo sport, piuttosto che un mezzo dedicarsi ad una attenta attività filosofica (cfr. Adorno e Horkheimer [1947] 2010). In ogni caso, rimane la curiosità di sapere se sia giustificato denunciare il corpo come fonte di una vita appagante.

Descartes, Spinoza e Nietzsche

Il paradigma platonico è radicato nel pensiero filosofico occidentale. Per stimolare l'alfabetizzazione estetica esamineremo tuttavia un singolare antagonismo che ruota attorno allo status epistemologico del corpo. Questo scontro, che si colloca all'inizio del periodo moderno, vede protagonisti due filosofi razionalisti contemporanei, René Descartes (1596-1650) e Baruch Spinoza (1632-1677). Le Meditazioni metafisiche di Descartes ([1641] 2019) sono un altro testo canonico che afferma la superiorità della mente sul corpo. Scritto come molti testi filosofici come una riflessione personale, Descartes intraprende un compito terapeutico di accertamento di sé (§ 2.5), un compito scettico che comporta la critica dei “princìpi stessi su cui poggiava tutto quel che ho creduto in passato” in modo da scoprire un fondamento ultimo della conoscenza che non ammette il minimo dubbio (§ 1). Di conseguenza, egli mette in discussione la certezza dei dati sensoriali, dell'essere svegli, degli assoluti matematici, dell'agire razionale degli altri e, in modo meno palese, dell'esistenza e della bontà di Dio. È interessante notare che, per esercitare questo scetticismo militante, Descartes adotta di base la lente platonica per valutare il corpo:

considererò me stesso come se non avessi mani, occhi, carne, sangue né alcun senso, e quindi falsa l’opinione di avere queste cose. Rimarrò ostinatamente fermo in questa supposizione; e in tal modo non sarò certo in grado di conoscere alcunché di vero, ma in compenso mi guarderò con risolutezza dall’assentire al falso. (1,15)

Il corpo umano (e la sensibilità in generale) è quindi considerato da Descartes come ciò che può essere facilmente allontanato in quanto inaffidabile nella ricerca della certezza e della conoscenza: “suppongo di non avere affatto i sensi, e che siano chimere il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo”; in termini più eloquenti, la finzione che qui ci interessa maggiormente porta anche il nome di “tutto quel congegno di membra, quale si vede anche in un cadavere, che chiamavo corpo” (2, 17 e 19-20). Inoltre, Cartesio utilizza un famoso esempio per dimostrare che qualsiasi corpo, come un pezzo di cera, può cambiare forma, sensazione e odore in modo diverso. Per Cartesio, la cera/corpo può essere sciolta/separata, mentre l'idea di cera/corpo, e la mente stessa, non possono esserlo. Non sorprende quindi che Cartesio si trovi in uno stato mentale in cui non esistono né il suo corpo né il mondo esterno alla sua mente, tutte cose che possono essere messe in dubbio. È in questo contesto che arriva ad affermare:

sono forse io così legato al corpo e ai sensi da non poter esistere senza di essi? Mi sono bensì persuaso che non esiste proprio nulla al mondo, né cielo né terra né menti né corpi; ma per ciò anche che non esisto neppure io? No di certo! Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! (2. 18)

Descartes sostiene che non è nei momenti in cui si affronta una bufera di neve, o in quelli in cui la cera cambia stato fisico sul proprio ventre, e nemmeno in quando si compie una qualsiasi azione filantropica che ci si rende conto di esistere, ma esclusivamente in un istante di autocognizione.

Chi è Descartes, dunque, e cosa definisce l'essere umano, la nostra “natura, o essenza” (6, 97)? Colui che pratica una forma di elenchus: “una cosa che pensa“ (2, 12). Il corpo umano può essere ancora una volta ignorato, sostiene, perché a differenza dell'io pensante, non è sufficientemente chiaro. In fondo il corpo umano, osserva, è “è un meccanismo, composto di ossa, nervi, muscoli, vene, sangue e pelle” (6, 108). Un modo convenzionale di intendere il corpo umano, quindi, è in termini di meccanismo funzionale, come l'anatra digerente di Jacques de Vaucanson, la meraviglia francese del XVIII secolo.

In definitiva, l'analisi di Descartes porta all'estremo il paradigma platonico e, notoriamente, divide la mente e il corpo in due sostanze distinte:

E, benché forse (o meglio di sicuro, come dirò fra un momento) io abbia un corpo a me congiunto molto strettamente, tuttavia, poiché da una parte ho un’idea chiara e distinta di me stesso in quanto soltanto una cosa che pensa e non estesa, e, dall’altra parte, un’idea distinta del corpo in quanto soltanto una cosa estesa e non pensante, è certo che io sono distinto realmente dal mio corpo, e che posso esistere senza di esso. (6, 97)

Descartes adotta la posizione comune sul corpo umano che lo tratta in termini di utilità: il corpo è buono nella misura in cui serve alla mente, la facoltà per eccellenza che può pensare attraverso la ricettività corporea passiva e confusa. Come molti filosofi prima e dopo di lui, Descartes è scettico nei confronti delle potenzialità del corpo, poiché non riesce ad accettare il fatto che il corpo non possa ragionare. Tuttavia, questa convinzione pone a Descartes un problema, quello dell’“unione e (per così dire) commistione della mente col corpo" (6, 102). Alla fine, Descartes ricorre a una variante delle prime neuroscienze moderne e individua un punto di unità tra le due idee filosofiche nella ghiandola pineale, manipolata dagli “spiriti animali”, una nozione criptica al limite del soprannaturale ereditata dal Medioevo.

La posizione complessiva di Descartes suscitò molte controversie nella storia della filosofia e l'affermazione sul ruolo della ghiandola pineale fu presto ritenuta ridicola dal razionalista olandese Spinoza, un uomo di grande acume e arguzia. In un altro testo filosofico fondamentale del XVII secolo, l'Etica ([1667] 2010-2011), Spinoza osserva che, per quanto riguarda la comprensione filosofica, Descartes “ non ha mostrato altro se non l’acume del suo grande ingegno” (III, Prefazione; Spinoza 2010-2011, 1315). Non è necessario considerare qui le affermazioni filosofiche contro l'unità di mente e corpo nella ghiandola, ma l'attacco di Spinoza a Descartes è comunque degno della nostra attenzione:

Tale è l’opinione di quest’uomo chiarissimo (per quanto posso congetturare dalle sue parole), ed io difficilmente avrei creduto che fosse stata sostenuta da un Uomo sì grande, se fosse stata meno acuta. Certo, non posso stupirmi abbastanza che questo Filosofo, il quale aveva fermamente stabilito di non dedurre nulla se non da principi per sé noti, e di non affermar nulla che egli non percepisse chiaramente e distintamente, e il quale tante volte aveva rimproverato gli Scolastici di aver voluto spiegare le cose oscure mediante qualità occulte, ammetta un’ipotesi più occulta di qualunque qualità occulta. Che cosa, di grazia, egli intende per unione della mente e del corpo? Qual concetto chiaro e distinto egli ha, dico, di un pensiero unito strettamente con una certa porzioncella dell’estensione? (V, Prefazione; Spinoza 2010-2011, 1555,1557)

A differenza di Descartes, Spinoza è intrigato dalla prospettiva di una comprensione filosofica della “più intima unione"della mente incarnata. Egli si astiene dal liquidare il corpo come un soggetto filosofico irrilevante e, consapevole dei propri limiti interpretativi, non cerca di spiegare le questioni filosofiche con mezzi polemici. Invece, nell'Etica, troviamo un'elucidazione dei possibili motivi di questa unità. Spinoza inizia sostenendo che “non c’è nemmeno nessun confronto tra la potenza, ossia le forze, della mente, e quelle del corpo; e quindi le forze del corpo non possono per nulla essere determinate dalle forze della mente” (ivi, 1557)

Questa intuizione colpisce dritto al cuore della nostra discussione, evidenziando il fatto che le capacità del corpo non devono essere valutate con criteri intellettuali. Le mani dell'uomo non sono progettate per cogliere la nozione di valore estetico di uno tsunami, eppure possono essere abili nel condurre una tavola da surf; allo stesso modo, l'immaginazione non è destinata a piegare una tarantola origami, ma può certamente escogitare modi per crearne molte. L'essenziale è che il filosofo non commetta un errore di categoria e condanni il corpo in virtù dei poteri della mente, e le implicazioni per l'estetica, come vedremo nella prossima sezione, sono piuttosto significative.

Spinoza offre un modo di interpretare il rapporto tra mente e corpo. Un dualista come Descartes vuole separare la mente dal corpo, il pensatore materialista suo contemporaneo Thomas Hobbes (1588-1679) riduce la mente al corpo, mentre Spinoza sostiene che entrambi derivano da un'unica fonte: Dio, o possiamo anche dire: la natura nella sua totalità. La natura – e il nostro posto in essa – è al centro dell'opera di Spinoza. La mente è una cosa pensante che non è estesa o mobile, mentre il corpo è una cosa estesa e non pensante, come sosteneva Descartes. Entrambi, tuttavia, sono “modi” specifici della totalità della natura (II, Prefazione). La mente pensa al corpo come suo oggetto – il mio corpo è una rappresentazione nella mia mente – eppure Spinoza sostiene che non si tratta solo di un'immagine ma, in effetti, “L’oggetto dell’idea costituente la mente umana è il corpo, ossia un certo modo, esistente in atto, dell’estensione, e niente altro” (II, 13; Spinoza 2010-2011, 1241). È interessante notare che, prestando attenzione alla vita del proprio corpo, non solo la mente impara a conoscerlo, aprendo così il mondo attraverso la percezione, ma impara anche a conoscere sé stessa (parte II, prop. XXII, XIII, XXIII, XXVI). Il loro rapporto è in linea di principio educativo e Spinoza, in modo piuttosto rivoluzionario, insinua che essere umani non significa superare il corpo, ma scoprire se stessi – la natura – attraverso di esso!

Pertanto, Spinoza non solo mette in discussione qualsiasi pensatore che ritenga il corpo un sacco di carne o un meccanismo a disposizione della mente, ma arriva anche ad affermare che la struttura stessa del corpo è un’opera d’arte. È in questo contesto soma-artistico che dovremmo invocare la sua classica proposizione:

Nessuno, infatti, ha sinora determinato che cosa possa il corpo, cioè l’esperienza sinora non ha insegnato a nessuno che cosa, per le sole leggi della natura considerata solo in quanto corporea, il corpo possa e che cosa non possa, se non sia determinato dalla mente. Nessuno, infatti, conosce sinora la struttura del corpo così esattamente da poterne spiegare tutte le funzioni, per tacere ora che molte cose si osservano nei bruti le quali oltrepassano di gran lunga la sagacia umana, e che moltissime cose i sonnambuli fanno durante il sonno che non oserebbero fare nella veglia. Il che dimostra abbastanza che il corpo, per le sole leggi della sua natura, può molte cose che suscitano la meraviglia della sua mente. (III, prop. 2, scolio; Spinoza 2010-2011, 1321)

Probabilmente, ciò che sta alla base della trascuratezza del corpo in filosofia non è altro che l'ignoranza, che provoca sfruttamento, negazione, bigottismo, paure represse, vergogna, aggressività e altri demoni che perseguitano l'umanità. Per scoprire il corpo come opera d'arte bisogna coltivarlo e sperimentarlo, cercare di attualizzarne le potenzialità e indirizzarle verso il perseguimento di una vita esaminata. In fondo, il nostro corpo, per dirla con Saito, può essere “una gemma” da riscoprire per verificare ciò che possiamo fare e, quindi, i limiti della vita estetica.

Spinoza è un razionalista del XVII secolo, e quindi non dovremmo aspettarci che egli sostenga l'autonomia del corpo o il suo carattere individuale. Eppure non identifica certo il corpo con una ricettività passiva o con un cadavere: in quanto parte della natura, il corpo è pieno di lezioni e di sorprese, e può aspirare all'eccellenza, come fanno gli esseri umani. Il pensiero geniale di Spinoza rappresenta quindi un drastico cambiamento rispetto al paradigma platonico (e in generale all'inclinazione a teorizzare sul corpo) che avrebbe comunque dominato la filosofia e l'estetica occidentale fino agli ultimi decenni.

Testo inopportuno nella filosofia e nella spiritualità occidentali, l'Etica di Spinoza fu criticata e soppressa, la sua influenza sull'Illuminismo fu trascurabile e segreta. Nell'epoca dominata dalle visioni monoteistiche dell'essere, Spinoza fu responsabile della rinascita del panteismo, anche se parla della natura o di Dio utilizzando definizioni, assiomi, proposizioni e corollari.

Il silenzio del corpo nella filosofia occidentale si è protratto nel XVIII, XIX e nella prima metà del XX secolo. Kant avanzò concetti sovracognitivi come “legge morale” e “immaginazione trascendentale”, G.W.F. Hegel (1770-1831) lo “Spirito del mondo”, Søren Kierkegaard (1813-1855) "un salto di fede", mentre Arthur Schopenhauer (1788-1860) si limitò a ricordare ai suoi lettori la pulsione sessuale. Tra questi giganti maschili del pensiero occidentale, un provocatore merita di essere menzionato.

Coltivare un atteggiamento maturo nei confronti di un artista dal pensiero multiforme è sicuramente complesso e va affrontato con discernimento. Prendiamo ad esempio la storia di Friedrich Nietzsche (1844-1900), noto per aver assaporato sentimenti proto-fascisti e, probabilmente, antisemiti,7 ma anche per aver compreso il valore dell'originalità quotidiana, della solitudine e del dolore, per aver fatto rivivere l'amor fati e la disarmante onestà. Nietzsche mette alla prova sé stesso e il lettore, e si distingue anche per l'invenzione di immagini suggestive, satiriche e naturalistiche legate al corpo. Infatti arrivò a sviluppare un proprio gergo filosofico attingendo al corpo, e filosofeggiò con parole come “stomaco” (per lo “spirito” umano) e “dieta” (la disciplina dello spirito). Prendo in prestito solo un aforisma dalla sua Gaia scienza ([1882] 2001), che riassume una svolta nietzschiana sul tema del corpo, dove, per contrapporsi a Platone, si concede la seguente definizione di filosofia:

L’inconsapevole travestimento di fisiologiche necessità sotto il mantello dell’obiettivo, dell’ideale, del puro-spirituale va tanto lontano da far rizzare i capelli – e abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino a oggi principalmente soltanto un’interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo. (La gaia scienza, Prefazione alla seconda edizione; Nietzsche [1882] 1965, 15-16)

Va ricordato che l'influenza culturale di Nietzsche è colossale e ha stimolato numerosi filosofi e critici culturali di primo piano come Martin Heidegger (1889-1976), Jean Paul-Sartre (1905-1980), Michel Foucault (1926-1984), Gilles Deleuze (1925-1995), Maurice Merleau-Ponty (1908-1961), che si distingue per il suo prezioso lavoro sull'incarnazione esistenziale, Mikhail Bakhtin (1895-1975), che ha sviluppato un concetto di ampia portata di “corpo grottesco” e, naturalmente, i grandi umanisti come Albert Camus (1913-1960) e Hannah Arendt (1906-1975). In ogni caso, è in Nietzsche che troviamo l'audace affermazione che non si può intraprendere un'attività aperta che chiamiamo filosofia trascurando il corpo. Fraintendendo noi stessi, i nostri istinti, le nostre pulsioni e le nostre capacità, trascurando il funzionamento del corpo, allo stesso tempo fraintendiamo e travisiamo l'ambito dell'indagine e della pratica filosofica.

È interessante notare che Nietzsche ha letto anche Spinoza e, in Aurora, possiamo trovare un seguito alla questione dell'enigma del corpo che per millenni è stato disprezzato, trascurato e tormentato, il corpo (aforisma 39; Nietzsche [1881] 1964, 34). È opportuno ricordare la richiesta di Spinoza all'Etica parte III, prop. II: noi filosofi sappiamo ora cosa può fare il corpo? Alla ricerca di una risposta attendibile, mi sono rivolto a due filosofi contemporanei, Graham Priest e Richard Shusterman. Il primo, un maestro contemporaneo sia di logica che di karate, osserva:

È chiaro che il corpo ha dei limiti fisici. Nessuno può sopravvivere a un colpo di mazza in testa. Non sappiamo, ovviamente, dove siano esattamente questi limiti. Qualcuno ha appena corso una maratona di meno di 2 ore. A che velocità è possibile farlo? Non ne abbiamo idea, anche se nulla può viaggiare più veloce della luce. E sì, naturalmente il corpo può fare cose incredibili che non si pensano possibili. La destrezza musicale, la scalata di El Capitan in solitaria, le imprese di qigong. Tutte queste cose sono incredibili” (Priest, comunicazione personale).

Prima di considerare la seconda risposta, permettetemi di riassumere le nostre scoperte in questa sezione: la trascuratezza del corpo – un atteggiamento indifferente nei confronti della sua coltivazione – è radicata nella nostra tradizione filosofica; sembra che sia l'inclinazione ad affermare la presunta superiorità della mente, designando l'accesso alla conoscenza distintamente umana, a essere responsabile di questa modalità di autocomprensione. Tale visione del mondo può manifestarsi in una molteplicità di valori, abitudini, preferenze e scelte. Prendiamo ad esempio lo stile di abbigliamento personale, un ambito estetico facilmente sperimentabile, come modo di esprimere il proprio sé, il senso di appartenenza e di sentirsi a proprio agio nel proprio corpo. La scelta dell'abbigliamento dipende spesso da un senso di identità culturale e anche dai nostri atteggiamenti e valori: etnici, religiosi, politici, aziendali, accademici, nudisti e così via (cfr. Novitz 1992, 107; Shusterman 2011, 150). Non sarebbe curioso osservare le scelte degli esperti del settore che rispecchiano la prospettiva di curare l'espressività e il benessere del corpo: gli estetisti accademici? In quest'ottica, ho mostrato a Tamara Leacock, stilista di abbigliamento etico e futurista, le foto di alcuni studiosi contemporanei di alto livello. È interessante notare che queste immagini tendono a presentare sfondi simili: pile di libri che incarnano un serio lavoro mentale. Le risposte di Tamara variavano tra indignazione, indifferenza, disgusto e interesse. Mi sono chiesta perché apparisse per lo più delusa. Tamara ha osservato che ci si aspetta che gli esperti di livello mondiale nei giudizi estetici esemplifichino un “gusto attivo”, in contrapposizione all'indossare capi trascurati o formali “come gli avvocati e i politici”, che sembravano condividere lo stesso sarto. C'è stata una fotografia, tuttavia, che ha suscitato interesse: un recente scatto (di Christophe Beauregard) di Richard Shusterman, alla cui teoria e pratica ci rivolgiamo ora.

Trovare il corpo-coscienza nella somaestetica

Apprezzo la prospettiva di Spinoza. Introduco il termine “soma” per evitare tutti i pregiudizi sui limiti del corpo e sulla mancanza di intelligenza, soggettività e agency che sorgono automaticamente quando si usa il termine “corpo”.

Questa è la risposta personale di Shusterman alla questione di Spinoza, con la quale si allontana ulteriormente dal paradigma platonico-cartesiano. Come tutti gli esseri umani, io sono sia nel mio corpo che nella mia mente. Per essere in grado di realizzare la mia umanità, devo imparare a coltivarli. Shustermann osserva:

La connessione corpo-mente è così pervasivamente intima che sembra fuorviante parlare di corpo e mente come di due entità diverse e indipendenti. Il termine corpo-mente esprimerebbe più adeguatamente la loro unione essenziale, che lascia ancora spazio alla distinzione pragmatica tra aspetti mentali e fisici del comportamento e al progetto di aumentare la loro unità esperienziale. (2006b, 2)

Il progetto di SA, di conseguenza, è un tentativo di portare in primo piano il corpo umano come fonte essenziale per realizzare la nostra umanità attraverso la pratica. È inoltre degno di nota il fatto che il corpo diventi un argomento di rinnovato interesse filosofico attraverso un'indagine estetica. Far rivivere l'interesse per il corpo significa far rivivere l'interesse per la componente essenziale della nostra agency8, che è di per sé estetica. Dopo tutto, aisthēsis significa originariamente percezione del senso inestricabile dalla ricerca della comprensione, e non c'è percezione del senso senza essere incarnati. L'estetica diventa più evidente nella misura in cui ci si prende cura del corpo, nella misura in cui lo si intende come soma. Per questo motivo, in questa sezione, ci occuperemo del soma, un termine coniato da Shusterman due decenni fa (1997).

Semanticamente, il concetto di corpo si differenzia da quello di soma, in quanto il primo sta tipicamente per l'inferiore della mente, un'immagine-servo costruita scientificamente e strumentale, mentre il secondo designa una fonte di “esperienza vissuta” (1999, 302). Il corpo è un involucro utile, un mezzo per il movimento, per l'assunzione di sostanze nutritive e per altre esperienze, come attività (protezione, tuffo dalla scogliera), sensazioni (bruciore, bacio), emozioni (amarezza, serenità) e sensazioni di ogni tipo. Tuttavia, il corpo è solo una fonte vulnerabile di autostima perché è solo un oggetto utile. Il corpo può essere sviluppato come mezzo per ogni tipo di esperienza, per impressionare le persone o sé stessi, ma non è considerato come ciò che manifesta l'agency corporea, uno stato compiuto che designa la familiarità con i propri poteri somatici, che può deteriorarsi/approfondirsi con il tempo. Fonte affidabile di autostima, il soma è “il corpo vivente”, una creazione senziente, o “un campo complesso di movimenti multipli, un'ondata di vita, una proiezione di energia” (Shusterman 2006b, 3, 8). La mente, se ricordiamo Spinoza, si nutre di questa fonte di vita e si riconosce in essa, finché non c'è più nulla da riconoscere. Il soma è una porta d'accesso a una nuova disciplina che “ritorna ad alcune delle radici più profonde dell'estetica e della filosofia” e che aiuta a capire perché alcune di queste radici concettuali sono da evitare (Shusterman 1999, 299).

È interessante notare che la SA condivide alcuni tratti significativi con l'EA.9 Entrambe si ispirano al pragmatismo di John Dewey (1859-1952). Secondo Shusterman,

Se la maggior parte delle filosofie riconosce prontamente che la cultura è sia un valore essenziale sia la matrice ineliminabile della vita umana, il pragmatismo si spinge oltre, insistendo sul fatto che la filosofia stessa è essenzialmente il prodotto storico della cultura, e quindi dovrebbe cambiare (e lo fa) attraverso un cambiamento culturale più generale. [...] Il pragmatismo, quindi, è anche una filosofia essenzialmente pluralista. Insistendo sulla pluralità di valori e credenze [...] il pragmatismo afferma la sua apertura mentale pluralistica (che è più di una semplice tolleranza) verso gli individui che adottano queste diverse prospettive. (2012, 166)

Di conseguenza, i progetti di Shusterman e Saito sono aperti all'adozione di una lente multiculturale che mette in luce gli oggetti di un significativo abbandono in Occidente (cfr. Shusterman 2009). Di conseguenza, entrambi i progetti rimproverano la struttura essenzialista e formale dell'estetica occidentale e inculcano l'esplorazione e il miglioramento della sensibilità estetica in virtù di nuove forme di consapevolezza estetica. Sia Saito che Shusterman sostengono che la pratica dell'estetica arricchisce la vita a livello personale e collettivo. Più in generale, EA e SA dimostrano che la pratica contemporanea dell'estetica filosofica è troppo limitata per essere all'altezza del potenziale disponibile. Consideriamo Shusterman che ricorda la sua esperienza che ha portato alla nascita della somaestetica: “Avvicinare l'estetica al regno della vita e della pratica, mi sono reso conto, implica portare il corpo più centralmente nell'attenzione estetica, poiché tutta la vita e la pratica – tutta la percezione, la cognizione e l'azione – è fondamentalmente eseguita attraverso il corpo” (2012, 140).

Per gli scopi di questo capitolo, seguiamo il succo dell'argomentazione fondamentale di Shusterman, formulata in un documento fondamentale, Somaesthetics: A Disciplinary Proposal (1999). All'inizio, Shusterman definisce la SA come “lo studio critico e migliorativo dell'esperienza e dell'uso del proprio corpo come luogo di apprezzamento sensoriale-estetico (aisthesis) e di creazione di sé” (1999, 302). In linea con i valori filosofici classici, la SA affronta le questioni della conoscenza, dell'autoconoscenza e dell'orientamento alla vita esaminata (Shusterman 2012, 140). In altre parole, poiché “il corpo è una dimensione essenziale e preziosa della nostra umanità”, la SA esplora la nostra umanità in un mondo vasto (Shusterman 2006b, 1).

La SA riguarda una cura filosofica, o più precisamente una “cura somatica”, una nozione che può essere chiarita rispondendo ad alcuni pregiudizi inerenti alla filosofia occidentale (Shusterman 1999, 302). In primo luogo, Shusterman sostiene che gli standard di eccellenza non si applicano solo alla mente e quindi, invece di trattare il corpo come una fonte deperibile e inaffidabile di conoscenza e di autostima che, di conseguenza, può essere trascurata, dovremmo “cercare di migliorare l'acutezza, la salute e il controllo dei nostri sensi coltivando una maggiore attenzione e padronanza del loro funzionamento somatico” (302). Un soma coltivato, suggerisce e successivamente dimostra, è un mezzo per una conoscenza più distinta e attenta del mondo. In secondo luogo, poiché la filosofia non si occupa solo del mondo (e quindi del cosmo) che ci circonda, ma anche del nostro mondo interiore, il soma, che segna il confine materiale tra i due, è un agente di auto-scoperta e auto-conoscenza. Più specificamente, la coltivazione del soma si traduce in “una migliore consapevolezza dei nostri stati e sentimenti corporei”, in una comprensione più lucida delle nostre nature affettive (302). Il soma è “il luogo e il mezzo” dei dati sensoriali, e quindi la padronanza somatica approfondisce la nostra capacità di ricettività e di sentire, di prolungare o diminuire, di assaporare, modificare o negare una certa esperienza (304). La padronanza del soma è un mezzo cruciale per la vita esaminata, inestricabile dalla “giusta azione” (303). È importante notare che Shusterman è chiaro sul fatto che l'attenzione pragmatica dell'SA persegue un obiettivo solido: “migliorare alcuni fatti rifacendo il corpo e la società” (305).

A tal fine, Shusterman delimita tre dimensioni interdipendenti della SA: “analitica”, “pragmatica” e “pratica”. La prima dimensione, quella teorica, mette in evidenza “le tradizionali questioni ontologiche ed epistemologiche del corpo”, sollevate nella sezione precedente, e gli approcci contemporanei che costruiscono il corpo umano come fenomeno socio-politico (Shusterman 1999, 304). L'indagine analitica è essenziale per la dimensione pragmatica della SA, i corpi di conoscenza che mirano alle norme culturali e al cambiamento “proponendo metodi specifici di miglioramento somatico” (304). Per chiarezza, Shusterman distingue tra forme “rappresentazionali” ed “esperienziali” di metodologie di SA. La dimensione rappresentativa riguarda i metodi filosofici che si occupano della cura del proprio aspetto, come l'abbigliamento o il trucco, con l'enfasi di ristabilire un legame tra “il proprio sé spirituale” e la propria espressività somatica, tradizionalmente considerata una rappresentazione esterna e superficiale del sé (305-6). Questa accusa si indebolisce alla luce della dimensione esperienziale che valuta la propria esperienza “interiore” e “rifiuta di esteriorizzare il corpo come una cosa alienata e distinta dallo spirito attivo dell'esperienza umana” (306). Shusterman ci ricorda che “la [suddetta] distinzione non deve essere presa come rigidamente esclusiva”, poiché “c'è un'inevitabile complementarità tra rappresentazioni ed esperienza” (306). I metodi e le tecniche pragmatiche della SA, quindi, inculcano la possibilità di una coscienza somatica e, se applicati con successo, aiutano a resistere al richiamo della cura del corpo come involucro malleabile, scaffale per l'abbellimento consumistico e, più in generale, manichino sottoposto a un esercito di forze socio-politiche (cfr. Foucault [1976] 1978; [1984] 1984). Nel loro insieme, queste metodologie mirano a rendere le nostre esperienze “più soddisfacentemente ricche” e “la nostra consapevolezza dell'esperienza somatica più acuta e percettiva” (Shusterman 1999, 305, 307). Al contrario, finché la potenziale “profondità sperimentata” della vita somatica viene trascurata, il soma si ritrae nel fragile guscio del corpo e, come la mente conformista, rischia di essere manipolato da norme e pratiche che mantengono livelli docili di agency e creatività umana (306). Un esempio occidentale è rappresentato dalle scuole monosessuali, dove tutti gli alunni sono costretti a indossare la stessa uniforme e a comportarsi timidamente e con riverenza in presenza di un'autorità che solo in tempi relativamente recenti, di fronte alla disobbedienza, si sentiva autorizzata a punire e a frustare piamente parti del corpo disponili. Il soma è una meravigliosa fonte di intuizioni: “arrossisce, trema, trasalisce” e molte altre risposte ci comunicano sfumature curiose sulla nostra agency e sui nostri ambienti, compresi quelli oppressivi (Shusterman 2006b, 6). Il corpo spesso subisce un colpo quando lo spirito umano si sforza di raggiungere l'indipendenza, ma il problema dell'agency dovrebbe prendere in considerazione non solo le più familiari considerazioni etiche, sociali e politiche, le credenze, le azioni e gli impegni, ma anche il soma vivente ed espressivo. Alienando il corpo – come una facciata decorativa o una tela ideologica, la cui vita può essere ignorata – umiliamo la nostra umanità e ci allontaniamo dalla prospettiva di attualizzare la nostra natura.

Questa osservazione ci porta alla terza e ultima dimensione di SA, chiamata “pratica”, il regno dell'attività, dove in effetti si pratica la “cura somatica attraverso un lavoro corporeo intelligentemente disciplinato volto all'auto-miglioramento somatico” (Shusterman 1999, 307). Nelle parole di Shusterman, “preoccupata non di dire ma di fare, questa dimensione pratica è la più trascurata dai filosofi del corpo accademici, il cui impegno verso il logos discorsivo finisce tipicamente per testualizzare il corpo. Per la somaestetica pratica, meno si dice e meglio è, se questo significa più lavoro effettivamente svolto” (307).

Il progetto di Shusterman introduce problemi filosofici che la ragione non può affrontare da sola, poiché tali problemi derivano necessariamente da “un'importante dimensione non discorsiva”, cioè il soma (Shusterman 2012, 195). Questo punto critico riporta alla precedente preoccupazione per la cultura teorica dominante in estetica (e nella filosofia accademica). La razionalità impone le sue norme e regole al corpo, “testualizzando il corpo” il che spesso porta a lasciare il corpo ai margini della visione filosofica. Il corpo è un estraneo. Questa tendenza della filosofia potrebbe finalmente arrestarsi, e possiamo usare l'esempio del dolore, abitualmente declassato come qualcosa di indesiderabile e necessariamente dannoso. In realtà, il dolore può rivelare lezioni importanti: “Il dolore stesso – una coscienza somatica che ci informa di una lesione e ci spinge a cercare un rimedio – fornisce una chiara prova del valore dell'attenzione ai propri stati e sensazioni somatiche. La cura di sé migliora quando una consapevolezza somatica più acuta ci avvisa dei problemi e dei rimedi prima dell'insorgere dei danni del dolore” (2006b, 12).

Si può avere un episodio di dolore mentre si fa stretching, o si riflette su un orizzonte, si inala lo smog o il fumo di un incendio, e ogni esperienza di questo tipo è mediata dal soma che segnala modi per migliorare sé stessi e il proprio ambiente. Pertanto, la svolta seminale di Shusterman consiste nell'offrire “una disciplina filosofica completa che si occupa della conoscenza di sé e della cura di sé” e, per raggiungere questo obiettivo filosofico finale, “l'attività concreta del lavoro sul corpo deve essere enfaticamente nominata come la dimensione pratica cruciale della somaestetica” (Shusterman 1999, 307). La pratica della SA sviluppa un’ “attenzione somatica”, una cura per il soma che si riflette nel proprio “stile somatico”, che comprende la voce, il respiro, il profumo, la postura, i gesti, il modo di mangiare, di sorridere, di ridere e le attività più complesse, come la danza, l'insegnamento e il fare l'amore (Shusterman 2006b, 12; si veda anche 2011, 152; 2012, 312). Alcuni elementi del proprio stile somatico sono volontari e altri involontari, e uno dei principali obiettivi pratici della SA è diventare consapevoli delle proprie abitudini e comportamenti corporei e, se necessario e possibile, cercare di cambiarli e migliorarli. È in questo modo, ancora una volta, che il corpo diventa “vissuto, senziente, intelligente” e Shusterman chiama questo processo di coltivazione, riprendendo gli echi di Nietzsche e Foucault, “auto-stilizzazione o auto-creazione” (2011, 157).

I parametri epistemologici e ontologici della SA sono simili a quelli delle arti marziali: l'idea di un teorico della SA è insensata quanto quella di un teorico dell'aikido. L'attività filosofica diventa consapevole del corpo. Come percorso prospettico per una vita degna, bisogna fare SA, impegnarsi in un serio lavoro incarnato. Come dice splendidamente Shusterman, “anche se i coltelli sono chiaramente fatti per tagliare più che per essere affilati, a volte dobbiamo concentrarci sul miglioramento della loro affilatura e di altri aspetti del loro uso per migliorare la loro efficacia” (2006b, 13).

Il modello di base dell'AS si basa su una teoria e una pratica rigorosamente studiate. Il modello è, in linea di principio, interdisciplinare, poiché il soma non può essere rivendicato dai filosofi. In estetica, le recenti scoperte in materia di SA si diramano in molte direzioni, come l'architettura, la fotografia, il suono e la danza. Ma forse l'esigenza culturale più sentita è quella di sviluppare una consapevolezza della ricca portata di uno dei bisogni umani più naturali: l'esperienza erotica.

Purtroppo, imparare a fare l'amore è un argomento culturale ed educativo marginale. Di conseguenza, un non addetto ai lavori troverebbe piuttosto fastidiosa la scelta di questo argomento di discussione. Probabilmente riflettendo il nostro disinteresse per i poteri (affettivi) del corpo, la sessualità e l'incarnazione sono argomenti trascurati sia a scuola sia a livello universitario. Quando lo sforzo della mente di raggiungere l'eccellenza viene oppresso, cioè negando la pratica dell'elenchus, è probabile che si provi un senso di disagio, frustrazione e vergogna quando si affrontano le questioni filosofiche di prova. Per analogia, quando gli sforzi del corpo per raggiungere l'eccellenza sono limitati, si avranno risposte simili. Per esempio, ci si può sentire in conflitto come gli occidentali che incontrano i costumi tahitiani nel Supplemento al “Viaggio” di Bougainville di Denis Diderot (1713-1784). In un impavido testo di filosofia sull'educazione sessuale, scritto nel 1772, il cosmopolita Diderot parte dal presupposto che i suoi lettori sostengano forti convinzioni sulla famiglia nucleare e sulla sessualità e svela una cerimonia intrisa di sfumature estetiche:

In un solo momento la giovane Tahitiana si abbandonava con trasporto ai baci del giovane Tahitiano; essa attendeva con impazienza che sua madre, autorizzata dall’età nubile, togliesse il suo velo e mettesse a nudo il suo seno; essa era fiera di eccitare i desideri e provocare gli sguardi amorosi degli sconosciuti, dei parenti, di suo fratello; essa accettava senza paura e senza vergogna, in nostra presenza, in mezzo a un cerchio di innocenti Tahitiani, al suono dei flauti, tra le danze, le carezze di colui che le era stato designato dal suo giovane cuore e dalla voce segreta dei sensi. ([1772] 2019, 2101-2103).

Questo passo può ancora stimolare molte riflessioni e sentimenti, pone ancora un problema per i punti di vista convenzionali su libertà, desiderio, maternità, poliamore, intimità, nudità e molti altri. Vale la pena sottolineare anche l'apertura con cui Diderot presenta questo rito di passaggio. È difficile stabilire quanto questa rappresentazione letteraria sia un'invenzione artistica (o, forse, un'interpretazione errata dell'evento), ma è chiaro che Diderot è impaziente di giocare con i valori occidentali. Le sfumature vitali della vita erotica sono rispettosamente – e si potrebbe dire artisticamente – celebrate nella performance incarnata che mira a evocare “sentimenti sani”, quelli in cui l'erotico è una componente estetica (Diderot [1772] 2001, 190). Questa sensibilità può risuonare con Shusterman, che ha dedicato due documenti fondamentali alla promozione dell'educazione alla SA erotica, un progetto che si scontra con l'estetica occidentale, dove “vecchi pregiudizi e paure represse” dominano la nostra cultura (Shusterman 2006a, 224-25; si veda anche Shusterman 2007).

Le discussioni sull'estetica in relazione all'esperienza erotica suscitano disagio in una cultura che “limita l'esperienza estetica all'esperienza delle opere d'arte” e che “confina l'esperienza sessuale a una copulazione priva di immaginazione, sconsideratamente meccanica e insensibile” (Shusterman 2006a, 226). In effetti, anche i termini comunemente usati per denominare i nostri organi sessuali – “vagina” e “pene” – sono medici, influenzati dall'anatomia, piuttosto che da ricerche artistiche, spirituali o filosofiche di significato. È allarmante che questi termini scientifici vengano utilizzati per valutare la nostra vita sessuale e noi stessi. Come esercizio, invito il lettore a praticare l'estetica del linguaggio considerando le tre parole seguenti: “vagina”10, “fica”11 e “yoni”12.

Shusterman auspica certamente un'umanità più progressista e la sua analisi attinge alle antiche tradizioni greca, cinese e, in particolare, indiana, sviluppando una prospettiva vibrante e inclusiva. In linea con il modello SA, Shusterman sostiene che “la sessualità umana è motivata principalmente dall'attrattiva e dal piacere [...] e che quindi le prestazioni sessuali umane possono e devono essere rese più piacevoli e gratificanti attraverso l'applicazione di conoscenze, metodi e perfezionamenti introdotti dall'apprendimento, dal pensiero e dalla sensibilità estetica” (2007, 61).

Un'esperienza estetica erotica accuratamente orchestrata può comportare, ma non solo, la “messa in scena dell’atto sessuale”, vari “modi di preliminari" e “posizioni coitali”, in cui si deve tenere conto “delle dimensioni (e talvolta anche della consistenza) dei genitali, della forza del desiderio e del tempo necessario per soddisfarlo” (Shusterman 2007, 62-3). È fondamentale sforzarsi (e quindi imparare) a migliorare l'esperienza erotica estetica, anziché aspettarsi che un rapporto sessuale appagante appaia dal nulla. Come nota Shusterman,

l'unità nella varietà è una delle definizioni tradizionali di bellezza più importanti. Nelle arti erotiche indiane, la ricchezza della varietà si trova non solo nella diversità degli abbracci, dei baci, dei graffi, dei morsi, dei colpi, delle carezze ai capelli, delle temporalità, dei rumori d'amore, delle posizioni coitali (che includono il sesso orale e anale) e persino dei diversi modi di muovere il pene all'interno della vagina, ma anche nei modi in cui queste diverse modalità di varietà sono combinate in un'unità estetica. (2007, 64)

Così inteso, il potenziamento erotico è molto diverso dal nostro comune concetto di potenziamento sessuale ottenuto con mezzi medici e farmaceutici. Invece di prendere un farmaco e indossare un abito da infermiera o da medico, una pratica erotica SA mira a migliorare le prestazioni “prestando particolare attenzione a quali elementi di queste varie modalità si combinano con maggior successo in modo da stimolare e soddisfare il desiderio” (Shusterman 2007, 64).

Shusterman è convinto che tale pratica sia profondamente intenzionale. Più tradizionalmente, un'esperienza erotica artistica è una cura per la monotonia (e la noia), e quindi è potente per far progredire “i legami di amicizia intima” e sostenere “l'attrazione sessuale e l'amore sessuale” tra i partner che aiuta “a preservare l'armonia domestica e, attraverso di essa, la stabilità sociale” (2007, 65). Più specificamente, Shusterman osserva che

la ricca stimolazione e la raffinatezza dei sensi dell'Ars erotica, insieme alla padronanza e al perfezionamento di un'ampia gamma di complesse coordinazioni motorie e di posture corporee, non può non apportare un significativo miglioramento cognitivo alle capacità sensoriali e motorie. La coltivazione della percezione include l'educazione a riconoscere le disposizioni durature, ma anche i pensieri e i sentimenti mutevoli degli altri, in modo che l'amante possa rispondere adeguatamente. [...] Tale formazione percettiva sviluppa la sensibilità etica verso gli altri e la loro diversità. [...] Al contrario, l'autoconoscenza etica e l'autodisciplina sono analogamente approfondite e affinate attraverso pratiche erotiche che sondano i nostri desideri e le nostre inibizioni mentre li rimodellano, mentre mettono alla prova e affinano il nostro autocontrollo, attraverso un'abile e piacevole padronanza dei nostri sensi e della nostra sensualità. (2007, 65)

Questo è solo un esempio che dimostra come la pratica della SA, finalizzata allo sviluppo della “sensibilità somatica”, porti a una vita più soddisfacente (Shusterman 1999, 303). Per rispondere adeguatamente all'ambiente, alle persone con cui ci confrontiamo e all'enigma della nostra autostima, è necessario non solo fortificare la mente, ma anche il corpo vivente. Secondo Shusterman, questa è una delle basi essenziali su cui si può fondare una cultura a tutto tondo: “una misura della qualità della vita e dell'umanità di una cultura è il livello di armonia corpo-mente che promuove e mostra"”(2006b, 3). L'importanza di SA (e di EA) sulla questione di una vita degna di essere vissuta, inerente al fenomeno della cultura, viene ripresa nella conclusione.

Conclusione: abbandono, cultura e natura selvaggia

Nonostante i diversi ambiti estetici che Saito e Shusterman mettono in luce, i loro punti di vista possono essere uniti in una posizione filosofica di cura che ci esorta a praticare l'estetica, a imparare a impegnarci con noi stessi e con l'ambiente circostante, comprese le altre persone e la creazione senziente. Saito e Shusterman, entrambi pensatori e praticanti, si preoccupano di sottolineare che l'attenzione all'estetica nella nostra vita influenza non solo la nostra autocomprensione, ma anche, in modo correlato, i nostri valori, impegni e stili di vita. Pertanto, come auspicava Schiller, se praticata ed esplorata collettivamente, l'educazione estetica influenza positivamente la creazione di una cultura e di una società fiorenti. Vorrei soffermarmi sulle affermazioni più specifiche che Saito e Shusterman fanno a questo proposito.

Come ricordiamo, Saito individua nell'associazione dell'estetica con le arti l'ostacolo centrale all'evoluzione dell'estetica in un progetto più espansivo e culturalmente proattivo. L'intera linea argomentativa di Saito è imperniata sulla delicata tensione tra i due concetti di arte e non-arte, ed è l'impegno con quest'ultimo tipo di realtà estetica quotidiana che è necessario per promuovere una nuova forma di alfabetizzazione estetica. Prendendo atto della dimensione estetica dell'ordinario, la mia vita si arricchisce. L'ordinario deve essere apprezzato nei suoi termini, senza cercare di renderlo straordinario o artistico, riportandoci alle convenzioni del mondo dell'arte occidentale e alle corrispondenti risposte estetiche "sofisticate" (Saito 2007, 50; cfr. anche 202-3, 245; Haapala 2005, 50-2).

Consapevole di questa tensione, e dopo aver annunciato l'adozione di "un punto di vista multiculturale e globale" (Saito 2007, xxi) Saito pone una domanda cruciale: “il superamento del confine tra arte e non arte è impossibile?”. (2007, 250). È possibile "abbattere questa barriera" e attraversare il confine tra arte e vita comune, dove le nostre propensioni artistiche sono comunque soddisfatte (251)? Nella misura in cui ci atteniamo all'idea di un artista come persona speciale che pretende di presentare “uno spaccato di vita quotidiana come opera d'arte“, introduciamo allo stesso tempo “un divario incolmabile tra arte e vita” (252; cfr. anche 39-40). Questo divario è una peculiarità culturale dell'Occidente, una trappola normativa, e ci si può sottomettere ad esso, volontariamente o meno, o intrattenere una prospettiva alternativa.

Il progetto di Saito è edificante perché, a differenza degli influenti estetologi del passato, è consapevole della legittimità dei percorsi non occidentali: “Possiamo considerare quelle tradizioni culturali che non prevedono un posto o uno status speciale per l'arte perché ogni aspetto della vita è condotto con sensibilità artistica. In tali culture, tutti sono artisti e ogni attività è un'attività artistica nel senso che è praticata con la massima cura, con un'esecuzione abile e alla ricerca dell'eccellenza e della bellezza” (2007, 41). Saito fa l'esempio dei Balinesi che dicono “non abbiamo arte, facciamo tutto al meglio” e dei Navajos “che integrano il loro impegno artistico nelle altre attività”, semplicemente perché “l'arte è un modo di vivere” 13

Su queste basi antropologiche, Saito ammette che “se dovessimo allargare il dominio dell'arte per includere queste pratiche culturali, ciò equivale essenzialmente ad abbandonare l'estetica centrata sull'arte che ho esaminato [...] perché non ci sarebbe alcuna distinzione tra arte e non arte” (2007, 42). Ciò che è significativo in questo caso è una questione di inclusione culturale. Un modo per affrontare questo problema è quello di notare che in un mondo (o in una società) multiculturale, i diversi gruppi culturali sono interessati l'uno all'altro, ma la loro coesistenza e il loro sforzo per prosperare non minano le fondamenta di ciascuna cultura. In un mondo (o società) interculturale, l'inclusione implica l'adozione volontaria di modi di vita estranei, e quindi un sacrificio personale. Perciò, una traiettoria percorribile è quella di rinunciare completamente alle nozioni allettanti di arte e di artista, e scegliere di attualizzare la nostra predisposizione all'espressività, viva nei bambini, per coltivare la sensibilità estetica e la creatività. Come la natura selvaggia, questo modo di vivere striscia ai margini della cultura occidentale.14

Tuttavia, le preferenze culturali di Saito non sembrano essere queste. Alla fine del suo libro, si legge: “Mi aspetto che ci siano controversie sulle mie opinioni particolari. Pertanto, considero la mia analisi precedente come un avvio per ulteriori esplorazioni piuttosto che una teoria definitiva dell'estetica quotidiana” (2007, 243-4).

Di seguito vorrei criticare un impegno generale di Saito (e di Shusterman). Ricordando ancora una volta al lettore che “certamente accolgo con favore e sostengo l'ampliamento del nostro campo di applicazione dell'estetica adottando una modalità di esplorazione multiculturale e globale” (Saito 2007, lvii), Saito in definitiva espande i confini della vita estetica nei termini definiti dalla cultura occidentale:

Il problema di esaminare la nostra (occidentale contemporanea) vita estetica con l'aiuto dei resoconti degli antropologi e degli storici di quelle pratiche estetiche a noi sconosciute è che si ha l'impressione che l'unico modo per riconoscere la nostra multiforme vita estetica sia quello di assimilare o avvicinarsi a quelle tradizioni culturali o storiche sconosciute. [...] Ma la nostra vita estetica nel contesto quotidiano è già ricca e familiare. Non credo che sia necessario esotizzarne il contenuto, né che si debba diventare esperti di tradizioni balinesi, navajo, inuit o heiane o adottare le loro visioni del mondo per indagare gli aspetti finora trascurati della nostra vita estetica quotidiana. (2007, 42; corsivo aggiunto)

Saito sostiene che non c'è bisogno di imparare dalle suddette tradizioni per poter sradicare le gemme della “nostra [occidentale] vita estetica multiforme” (2007, lvii). Ciò implica che possiamo, ovviamente, prendere in prestito idee e approcci da altre tradizioni (come Saito prende in prestito dai giapponesi, o Shusterman dai cinesi), ma solo per rinfrescare la familiare vita occidentale, dominata dallo stile di vita urbano, per renderla più interessante e sostenibile. Se decidessimo di riorientare in modo significativo i nostri modi e valori alla luce di altre tradizioni, potremmo correre il rischio di esotizzare i contenuti della nostra vita (estetica) occidentale. Trovo problematica la posizione di Saito su cultura e benessere. Se da un lato plaudo alla filosofia e all'uso dell'ottica multiculturale di Saito, dall'altro credo che attualmente “una modalità globale di esplorazione” ci metta di fronte a gravi problemi globali, suggerendo che è necessario cambiare le nostre modalità.

È opportuno chiedersi: come si evolvono le culture? Consideriamo che Shusterman presenta tre diversi tipi di “politica culturale”. Il modo più ovvio è quando un governo “usa il suo potere politico per promuovere alcuni obiettivi culturali che ritiene valga la pena perseguire”, come erigere o bruciare teatri e monumenti, espandere o eliminare programmi di sovvenzioni (Shusterman 2012, 167). Un fenomeno più recente è quello in cui gruppi ostracizzati “si impegnano in attività politiche di forma spiccatamente culturale al fine di promuovere non solo i loro obiettivi culturali, ma anche il loro status politico e sociale” (169); e qui possiamo ricordare il multiculturalismo e l'LBGTI+ come due movimenti culturali di spicco. L'attivismo collettivo di quest'ultimo tipo, attraverso la teoria e la pratica, può espandere gli orizzonti culturali di un governo. Infine, il terzo tipo non riguarda né la politica né gli interessi di gruppo, almeno all'inizio. Questo approccio introduce una possibilità di cambiamento culturale “criticando e ricostruendo modi consolidati di vivere, parlare, agire e pensare, ma anche proponendo nuovi modi di vivere” (169).

Sia Saito che Shusterman immaginano che i loro progetti portino a un cambiamento culturale richiamando la nostra attenzione sui principali aspetti trascurati del quotidiano, sostenendo così nuovi modi di vivere. Tuttavia, i limiti di tale cambiamento sono definiti dai loro valori e dalla loro cultura urbana, che non corrispondono alle circostanze globali contemporanee. Vorrei che non fosse così; vorrei che avessimo più tempo. Per affinare e migliorare il progetto filosofico dell'alfabetizzazione estetica, Saito e Shusterman sostengono la coltivazione di modi comuni, ma non familiari, per godere di una vita migliore nel contesto di un ambiente urbano familiare. Inoltre, se Saito ha ragione nel sostenere che gli oggetti ordinari della nostra vita sono stati trascurati e che il nostro corpo è stato analogamente trascurato come fonte di autocomprensione, come insiste Shusterman, allora ciò equivale a dire che non siamo riusciti a impegnarci adeguatamente non solo con i fenomeni più fondamentali che ci circondano, ma anche con chi siamo. Nessuna delle due formulazioni dei fondamenti dell'alfabetizzazione estetica contemporanea tiene conto del dominio intimo e più ampio della natura selvaggia, trascurata, impoverita e massacrata come mai prima d'ora.

La negligenza è l'opposto della cura; la compiacenza e il sacrificio condividono una dinamica simile. È di fondamentale importanza segnalare un senso di urgenza che noi filosofi dobbiamo essere in grado di incanalare nel nostro lavoro, nella misura in cui il nostro obiettivo è la ricerca della comprensione e dell'istruzione all'interno di specifiche circostanze globali. Il nostro ambiente comune è messo in pericolo dal riscaldamento globale, minando direttamente la possibilità di prosperare, e c'è poco segno di tale urgenza nel lavoro dei due filosofi (cfr. Saito 2017, 141-45, 205, 215). I problemi ambientali globali sono terribili e richiedono cambiamenti immediati e drammatici nei nostri stili di vita. Per confermare questa osservazione ho contattato Bill McKibben, uno dei maggiori ambientalisti del mondo. Bill è chiaro sulla questione: “Il pianeta è molto al di fuori della sua comfort zone, quindi noi dobbiamo essere molto al di fuori della nostra”. La nostra zona di comfort si trova nella vita di città, negli edifici e in altre cose create dall'uomo, che strutturano anche gli ambienti regionali. Sia Saito che Shusterman offrono modi per prendersi cura della nostra natura enigmatica, letteralmente cosmica, solo dal punto di vista della cultura urbana.

La visione di Saito del cambiamento culturale e della promozione di un benessere esteticamente informato gravita su soluzioni civiche e i suoi riferimenti alla natura selvaggia sono scarsi (cfr. Saito 2007, 132-3; 2017, 69). Ad esempio, appoggiando il movimento denominato “ambientalismo civico”, Saito sostiene che un cambiamento necessario può avvenire nella misura in cui partecipiamo agli ambienti quotidiani formando “affetto e attaccamento” – o cura – e “promuovendo e sostenendo oggetti e ambienti progettati con sensibilità” (2007, 99, 239; cfr. Sepänmaa 1995, 15). È una cura centrata sulla città quella che Saito propone:

La cura, il rispetto, la sensibilità, la considerazione per l'altro, sia esso umano o non umano, devono essere il fondamento morale di una buona società e di una buona vita. Circondarsi e poter godere della facilità, del comfort e del piacere estetico offerti dagli artefatti induce un senso di appartenenza; tale ambiente ci dice che i nostri bisogni, interessi ed esperienze sono considerati importanti e degni di attenzione. A sua volta, ci incoraggia ad adottare lo stesso atteggiamento nei confronti degli altri non solo nell'interazione diretta con loro, ma anche nei rapporti con gli oggetti e l'ambiente circostante. Siamo più inclini a prenderci cura nel mantenere lo spazio pubblico in buone condizioni, nel pulire la casa e il giardino, nel piantare fiori, nel comporre un documento di facile lettura e nel servire un pasto che non sia solo nutriente e gustoso, ma che rifletta anche la ponderatezza e la consapevolezza. (2007, 240-41; vedi anche 244)

Per Saito il cambiamento radicale può nascere solo dall'interno, dal cambiare i nostri atteggiamenti e le nostre disposizioni, dal trovare un senso di appartenenza nel prendersi cura, piuttosto che dall'insaziabile teorizzazione e, di fatto, dal seguire le convenzioni. Ora, se da un lato credo che un cambiamento culturale significativo sia una questione di trasformazione personale, dall'altro sono pessimista sulle prospettive che un simile cambiamento nei modi di pensare possa emergere nell'ambiente urbano. Nel 2021, è difficile ammettere che la cura delle gemme nascoste della vita urbana possa plasmare una struttura mentale e corporea per il tipo di cambiamento che è attualmente in gioco.

Lo stesso problema ostacola la visione del progetto di Shusterman. È vero che il miglioramento somatico non solo arricchisce l'esperienza e il sentimento della vita, ma espone anche un'apertura alle "profondità del sé e del carattere" e, di conseguenza, alle profondità del progetto collettivo della cultura:

Esaminando criticamente gli ideali oppressivamente ristretti della nostra cultura in materia di bell'aspetto e soddisfazione somatica, ed esplorando al contempo nozioni alternative di bellezza corporea e di fonti di piacere somatico, la somaestetica può sicuramente contribuire a migliorare "il senso delle persone di chi sono" e di "ciò che conta per loro", e può promuovere nuovi modi di parlare del nostro sé incarnato che siano più liberatori e gratificanti. Attraverso la sua critica comparativa e l'esplorazione di varie discipline somatiche e di come queste possano essere introdotte in modo produttivo nel progetto della filosofia come arte di vivere, e ancora di più attraverso l'effettiva pratica di tali discipline nella propria vita, la somaestetica non solo offre suggerimenti per la coltivazione personale, ma anche risorse per la "speranza sociale" e "programmi di azione funzionanti". (Shusterman 2011, 158; si veda anche Shusterman 2012, 189).

Come l'EA, la SA ha il potenziale per porre rimedio a molti mali sociali, poiché entrambe implicano l'auto-coltivazione all'interno di un determinato ambiente. In una società multiculturale, il progetto di Shusterman di comprendere il soma, ad esempio, è un modo per annullare "l'ostilità etnica e razziale" spesso radicata in "pregiudizi profondi che sono somaticamente segnati in termini di vaghe sensazioni di disagio suscitate da corpi estranei, sensazioni che sono vissute implicitamente e quindi incise sotto il livello della coscienza esplicita" (2006b, 4). In effetti, “la morsa viscerale del pregiudizio” non può essere annullata dalla sola mente (4-5). Tuttavia, la filosofia di Shusterman come stile di vita è uno stile di vita urbano. Interessato sia alla cultura pop che a quella alta, Shusterman continua a sorvolare sull'ambiente naturale, in particolare sulle sue forme selvagge, come le vaste aree di acqua e di terra. Passando in rassegna tutti i tipi di pratiche artistiche per la creazione di sé, Shusterman si avvicina alla considerazione somatica della natura selvaggia mentre passa il tempo in un dojo zen nel Giappone rurale. La natura selvaggia viene menzionata come “il sublime paesaggio marino naturale”, uno sfondo incantevole per un'attività meditativa (2012, 305).

Ciò che mi preoccupa è il fatto che l'autocomprensione tanto nell’EA quanto nella SA sia modellata all'interno delle aspirazioni della cultura urbana, come se questa forma di autocostruzione umana e di cooperazione definisse in l’essenza e l’inclinazione dell'umanità in quanto tale. Entrambi i progetti estetici promuovono notevoli filosofie della cura. Tuttavia, le dimensioni di attenzione che aprono sono limitate dalle preoccupazioni urbane; anche se tali preoccupazioni promuovono una trasformazione culturale necessaria, faccio fatica a giustificare l'abbandono della natura selvaggia, un corpo cosmicamente espressivo. Consideriamo la definizione di estetica del quotidiano data da Shusterman, il quale osserva che il termine può essere inteso in due modi: “Sebbene entrambe si occupino di apprezzare oggetti ordinari o eventi comuni, la prima nozione sottolinea l'ordinarietà di queste cose quotidiane, mentre la seconda enfatizza invece il modo in cui tali cose possono essere percepite attraverso un apprezzamento estetico distintamente focalizzato che le trasfigura in un'esperienza più ricca di significato” (2012, 303).

Sia le qualità EA che il corpo sono effettivamente ordinari – siamo abituati a darli per scontati – e lo è anche la natura selvaggia. Sembra che sia Saito che Shusterman mirino a salvare la vita esaminata intesa quasi esclusivamente all'interno dell'ambiente urbano, che richiede un pesante tributo alla natura per prosperare. Ci si può solo chiedere perché la natura selvaggia non compaia in questi progetti culturali come oggetto del comune impegno estetico, i cui parametri possono essere trasfigurati da ciò che supera ogni capacità e ogni creazione umana, come la cultura.15 Forse, perché la natura selvaggia è ciò che è al di fuori della nostra zona di comfort.

Quali sono le qualità EA della natura selvaggia, come ci influenzano, cosa suggeriscono sulla nostra agency e quali pratiche e azioni provocano? Cosa ci insegna il soma sul nostro essere quando siamo impegnati nella natura selvaggia?16 Quali tipi di filosofie e significati emergono nella natura?

Poiché il nostro obiettivo è quello di determinare i possibili fondamenti dell'alfabetizzazione estetica contemporanea, sarà sufficiente stabilire alcuni passi iniziali. Un semplice esempio spiega come, a livello normativo, siamo esclusi dalle esperienze nella natura selvaggia. Forse il modo più comune per cercare di trascorrere del tempo nella natura è quello di fare una gita in un parco nazionale. Per lo più circondati da una natura selvaggia, ci godiamo il viaggio verso una certa destinazione, vedendo a malapena altri esseri umani. Ma tutti i parchi nazionali sono parchi, dopo tutto, e quindi sono contrassegnati da strade e sentieri. I sentieri in natura sono come le strade principali in città. È difficile conoscere la cultura della propria città guidati da una linea, progettata da non si sa chi o a quale scopo. È difficile scoprire un concerto di un'iconica band post-punk underground in una strada principale della città. In una città autentica, come la Berlino contemporanea, i segni preziosi della cultura si scoprono spesso fuori o sotto le strade e i negozi principali, fuori o sotto la cultura mainstream. Analogamente, gli infiniti (e spesso invitanti) fenomeni naturali emergono, si esibiscono, interagiscono, invecchiano, decadono, strisciano, cambiano colore e volano oltre i sentieri, nella natura.

Estinte o ancora esistenti, le culture antiche hanno sviluppato molte impressionanti cerimonie di passaggio alla maggiore età per segnare la crescente saggezza pratica di una persona, alcune delle quali testate per mezzo di lunghi periodi di tempo solitari e terapeutici. Una di queste meravigliose e impegnative cerimonie è il Walkabout praticato dagli aborigeni australiani, la più antica cultura del nostro pianeta. Non sappiamo molto di questa prova spirituale, eppure l'obiettivo finale del Walkabout è seguire chi si sta diventando, un compito simile a quello di molte filosofie di cura occidentali o orientali.

Condizione primordiale dell'esperienza, la natura selvaggia è il nostro habitat. Ci offre i suoi modi per imparare a essere umani, quando esploriamo e assaporiamo i nostri sensi.

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Note

1 Questo fatto è testimoniato dalla creazione di una serie di nuove riviste, ad esempio “Contemporary Aesthetics” (2006-), “Journal of Aesthetics and Culture” (2009-), “Evental Aesthetics” (2012-), “Journal of Aesthetics and Phenomenology” (2014-), “The Journal of Somaesthetics” (2015-) e “Aesthetic Investigations” (2015-).

2 È essenziale studiare le vite dei filosofi per conoscere i diversi modi di essere filosofo. Chiunque può essere un filosofo, che si tratti del giovane più ricco d'Europa come Ludwig Wittgenstein (1889-1951), che ha solo flirtato con l'accademia, o di Diogene il Cinico (412-323 a.C.), un altro nobile che ha incarnato l'alternativa filosofica alla prima accademia vivendo per le strade di Atene, o di bell hooks, una pensatrice nata in una città segregata da una famiglia afroamericana della classe operaia.

3 La formazione accademica di solito non prevede né il lavoro sul campo né una prassi non convenzionale. Le intuizioni filosofiche possono essere comunicate e provocate utilizzando molti stili, che vanno dai dialoghi letterari e dalla fantascienza alla poesia e agli aforismi. Alla CUNY, ad esempio, Jesse Prinz dirige Phil-arts, un gruppo di studenti laureati che mira ad allontanarsi dalle norme accademiche esercitandosi a scrivere “narrativa, scrittura popolare, canzoni, fumetti, blog, persino commedie” (comunicazione personale). All'Università dell'Arizona, Keith Lehrer utilizza la danza per scoprire i significati dell'arte astratta. Detto questo, non abbiamo ancora visto una norma che preveda che gli studenti di filosofia affilino i loro giudizi svolgendo un lavoro filosofico nelle loro comunità e nelle strade.

4 Il lettore interessato alle origini dell'estetica quotidiana dovrebbe consultare anche il lavoro di Katya Mandoki (2007).

5 Le opere di Platone sono citate per titolo, tutte reperibili in Platone (2000). Le posizioni specifiche sono segnalate utilizzando i numeri di Stephanus piuttosto che i numeri di pagina, un modo comune per localizzare le sezioni in diverse edizioni e traduzioni delle opere di Platone.

6 Forse è questa passione per e nel fare filosofia che accomuna i filosofi di tutto il mondo. Nella storia della filosofia, alcuni filosofi scelgono di incanalarla in attività pratiche, nell'etica, nella politica o nell'educazione, mentre altri non riescono a evitare di fissarsi sul brivido del filosofare, e l'esperienza della pulsione diventa un'affermazione di sé stessi, piuttosto che dell'umanità.

7 In realtà quello dell'antisemitismo di Nietzsche è un equivoco. Si veda Ferraris 1995, 617 segg. [N.d.T.]

8 Lascio in inglese questo termine tecnico, che indica la capacità di un soggetto di agire autonomamente, prendere decisioni e realizzare le proprie possibilità. [N.d.T.]

9 Poiché il soma è la caratteristica che definisce l'agency umana, la SA non riguarda solo il regno dell'EA, come accennato da Saito sopra, ma anche tutta l'indagine estetica, comprese le arti, e persino ben oltre la disciplina della filosofia, nel regno interdisciplinare.

10 Il termine deriva da una parola latina che significa “guaina” e che oggi viene definita come “il passaggio nel corpo di una donna o di un animale femminile tra gli organi sessuali esterni e l'utero” (Oxford Dictionary).

11 Sebbene il significato di questa parola possa risultare volgare e dispregiativo nell'uso comune contemporaneo, il lettore dovrebbe ricordare che, negli ultimi cinquant'anni la parola è stata recuperata da molte pensatrici e artiste femministe (cfr. Muscio, 2002). Si consideri anche la riflessione di Bakhtin sulle parole appartenenti allo strato corporeo inferiore: “nell'immagine moderna del corpo individuale, la vita sessuale, il mangiare, il bere e il defecare hanno cambiato radicalmente il loro significato: sono stati trasferiti al livello privato e psicologico, dove la loro connotazione diventa ristretta e specifica, strappata dal rapporto diretto con la vita della società e con l'insieme cosmico. In questa nuova connotazione non possono più svolgere le loro precedenti funzioni filosofiche” ([1965] 1984, 231). Bakhtin tenta di rianimare lo spirito non ufficiale della cultura popolare festiva, “che si oppone alla separazione dalle radici materiali e corporee del mondo”, un compito raggiunto, contrariamente ai nostri sentimenti moderni, attraverso “la degradazione, cioè l'abbassamento di tutto ciò che è alto, spirituale, ideale, astratto; è [...] la discesa sulla terra, il contatto con la terra come elemento che inghiotte e partorisce allo stesso tempo” (20-1). Secondo Bakhtin, quindi, queste parole sono cariche di significati repressi che ci legano non al nostro io privato in quanto tale, ma alla terra e, di conseguenza, a “un carattere cosmico e allo stesso tempo di tutto il popolo” (19). Così, Bakhtin mette a nudo una lacuna semantica secolare, in cui potremmo riscoprire un senso rigenerativo della vita terrena e dei linguaggi dello strato corporeo inferiore: “L'abuso e l'imprecazione indecenti moderni hanno conservato residui morti e puramente negativi del concetto grottesco del corpo [...] non è rimasto quasi nulla del significato ambivalente per cui sarebbero stati anche rianimati; sono sopravvissuti solo il nudo cinismo e l'insulto. [...] Tuttavia sarebbe assurdo e ipocrita negare l'attrazione che queste espressioni esercitano ancora, anche quando sono prive di connotazione erotica. Un vago ricordo di libertà e verità carnevalesche del passato si annida ancora in queste moderne forme di abuso. Il problema della loro insopprimibile vitalità linguistica non è ancora stato posto seriamente” (28). “Le migliori energie sono spesso nascoste dietro le parolacce più forti. È come se tutti i fondoschiena maltrattati aspettassero la loro ora di rivincita nel prossimo futuro, quando tutto cadrà di nuovo a terra”, un'osservazione analoga che si trova nella fondamentale Critica della ragione cinica di Peter Sloterdijk (1987, 148).

12 Parola sanscrita di significato cosmico che designa non solo l'organo sessuale femminile, l'utero e la casa, ma anche una potente metafora delle forze rigenerative e creative (cfr. Dinsmore-Tuli, 2014).

13 Saito 2007, 41; cfr. Rader & Jessup 1976, 116; Witherspoon 1996, 737.

14 La filosofia come stile di vita, piuttosto che come percorso professionale o hobby, è un'interpretazione comune dello stile di vita filosofico che deriva dall'antichità. Recentemente, questo approccio è riemerso grazie all'interesse per le opere e le vite di Michel de Montaigne (1533-1592) e di Foucault, Nietzsche, Dewey, Wittgenstein e Pierre Hadot (1922-2010). Gli elementi estetici/artistici di questo approccio alla vita filosofica non sono ancora stati indagati a causa dello status arbitrariamente speciale dell'estetica e delle arti nella cultura occidentale.

15 Cfr. Henry David Thoreau in "Camminare" (alias "Il selvaggio"): "Ecco questa nostra vasta, selvaggia, ululante madre, la Natura, che giace tutt'intorno, con una tale bellezza e un tale affetto per i suoi figli, come il leopardo; eppure siamo stati svezzati così presto dal suo seno alla società, a quella cultura che è esclusivamente un'interazione dell'uomo sull'uomo" ([1862] 2002, 199). E anche Andrey Tarkovskij: "Una persona non ha bisogno della società, è la società che ha bisogno di lei. La società è un meccanismo di difesa, una forma di autoprotezione. A differenza di un animale gregario, una persona deve vivere in isolamento, vicino alla natura, agli animali e alle piante, ed essere in contatto con loro. Vedo sempre più chiaramente che è essenziale cambiare il nostro modo di vivere, rivederlo" ([1977] 1994, 145).

16 Una discussione più approfondita può trarre beneficio dal considerare le intersezioni con l'estetica ambientale. Per inziaiere si può dare uno sguardo al capitolo di Yuriko Saito in questo volume e al lavoro di Arnold Berleant.

 

Introduction to Philosophy: Aesthetic Theory and Practice, di Andrew Broady, Elizabeth Burns Coleman, Pierre Fasula, Richard Hudson-Miles, Ines Kleesattel, Xiao Ouyang, Matteo Ravasio, Yuriko Saito, Elizabeth Scarbrough, Matthew Sharpe, Ruth Sonderegger, Valery Vino e Alexander Westenberg; a cura di Valery Vino e Christina Hendricks, prodotto con il supporto della Rebus Community. L'originale è disponibile gratuitamente con licenza CC BY 4.0 all'url: https://press.rebus.community/intro-to-phil-aesthetics. Edizione italiana a cura di Antonio Vigilante.
Modifiche rispetto all’originale:
È stata eliminata la parte conclusiva, da “Leave behind…” a “and from childhood”.
Sono stati eliminati alcuni riferimenti bibliografici.

Foto di Inge Poelman su Unsplash