Cos'è l'estetica?

La Nike di Samotracia. Wikimedia Commons

Una caratteristica ben nota della filosofia è che ogni tentativo di definirla solleva più domande che risposte: se questo è vero per la filosofia in generale, è forse ancora più vero per quella sua branca nota come estetica. Anche se per alcuni aspetti la disciplina moderna come la conosciamo oggi è riconducibile alla filosofia europea del XVIII secolo, l’importante lavoro fatto in quel secolo non è stato isolato da molti secoli di lavoro precedente, per non parlare della lunga tradizione di riflessione estetica in Cina e Giappone, per esempio, che può risalire alle sue origini almeno quanto la tradizione europea (e, come vedremo, ci sono alcune somiglianze di origine). Infine, anche se l’estetica è spesso considerata come legata alle opere d’arte, non è del tutto così oggi, né è stato così in gran parte della storia dell’estetica.

La questione, quindi, non è facile. Di fronte a un tale dilemma, è forse meglio iniziare etimologicamente: cosa significa la parola “estetica” e da dove viene? Sebbene sia entrata per la prima volta nell’uso comune con l’opera del filosofo tedesco Alexander Baumgarten ([1735] 1954), la parola è di origine greca, dalla parola αἰσθητικός (aisthetikos: Liddell & Short 1940), che si riferisce alla percezione ed esperienza dei sensi. In base a questo significato, quindi, l’estetica studia qualcosa che è percepito, nel senso più ampio del termine, più che immaginato o elaborato razionalmente. Cioè l’oggetto di studio dell’estetica deve essere, almeno in parte, sensoriale. Naturalmente, si potrebbe pensare che questo sia vero per la scienza, ma la differenza è cruciale: la scienza è lo studio del mondo materiale in sé, mentre l’estetica – nel suo senso più fondamentale – riguarda l’esperienza che facciamo delle cose all’interno di quel mondo. In particolare, l’estetica riguarda il loro livello di piacevolezza, come quando ci chiediamo se una particolare esperienza è piacevole o no.

A questo punto cominciamo ad arrivare non solo a una definizione operativa dell’estetica, ma anche a una dichiarazione delle sue domande più importanti. Forse la cosa più importante è che possiamo arrivare ad una spiegazione del perché valga la pena porsi le sue domande e perché sia una disciplina utile da intraprendere. La nostra definizione, quindi, potrebbe essere questa: l’estetica è una branca della filosofia che esamina le questioni della piacevolezza delle nostre esperienze riguardo alle cose del mondo (dove la piacevolezza è presa in senso ampio per includere, per esempio, il piacere intellettuale di essere sfidati o affrontati). Questo è ancora abbastanza generale, ma ci dà un quadro da cui partire per costruire una comprensione più profonda; anche se, come suggerito all’inizio, qualsiasi speranza di restringerlo ulteriormente può essere inutile. Certamente, il beneficio immediato di questa definizione è che evidenzia abbastanza bene una tensione che risiede nel cuore di tutto il lavoro estetico: la tensione tra esperienze personali, soggettive, ed esperienze più universali, oggettive. Se mettiamo tutte le esperienze su uno spettro, quelle all’estremo soggettivo, come il godimento personale dato dal fare nuoto o mangiare sedano sono chiaramente esperienze uniche per un particolare individuo: anche se ovviamente a molte persone piace nuotare (e, a quanto pare, mangiare il sedano), non ci aspettiamo che qualcun altro condivida questo godimento. All’altra estremità dello spettro troviamo le esperienze oggettive, che sono così universali da essere applicabili all’umanità in generale – esperienze come la fame, la sete, il riso, l’attrazione fisica, la stanchezza, il dolore fisico, l’esperienza del colore, l’esperienza di sentire l’acqua sulla pelle mentre si nuota, e così via. Le esperienze oggettive non hanno a che fare con la piacevolezza; anche se potremmo trovare l’esperienza del nuoto (per esempio) piacevole o meno, tuttavia le esperienze che compongono il concetto generale di nuoto, come l’esperienza di sentire l’acqua sulla pelle, non sono di per sé esperienze di piacevolezza, e quindi sono al di fuori della disciplina dell’estetica. Ma lo stesso vale per le esperienze soggettive; anche se il piacere o il fastidio personale di mangiare il sedano, per esempio, ha certamente a che fare con la piacevolezza, ha a che fare con la piacevolezza per noi, e per nessun altro. Certo, ci si potrebbe chiedere se c'è qualcosa che lega tutte le persone a cui piace il sedano, ma se la risposta è fisica, allora è una questione di fisica, e se mentale, di psicologia.

Se eliminiamo le esperienze ai due estremi, troviamo nel mezzo alcune esperienze che sono in tensione tra l’essere soggettive e oggettive, personali e universali: esperienze come ascoltare una canzone, una sinfonia o il suono delle onde; guardare un bel tramonto, un quadro di Turner o di Tensho Shubun, una scultura, un pezzo di graffiti o una danza; o leggere un romanzo o una poesia. La cosa interessante di queste esperienze è che sono indubbiamente personali eppure, a differenza del caso del sedano che piace, ci aspettiamo che esse siano universali, condivise dagli altri. A differenza del mangiare il sedano, che è piacevole o no, queste altre esperienze implicano una sorta di giudizio, come “questo è bello”, rendendole molto più vicine a un'esperienza oggettiva come “questo è giallo”. E, proprio come ci aspetteremmo che gli altri siano d’accordo che un oggetto giallo sia veramente giallo, e penseremmo che le loro percezioni siano sbagliate o difettose se non fossero d’accordo, così anche con esperienze come guardare una bella scultura come la Vittoria Alata di Samotracia, ci aspettiamo che gli altri siano d’accordo sulla sua bellezza – infatti, a volte ci aspettiamo che siano d’accordo anche se non piace loro, consentendo una tensione come “questo è un buon libro, ma personalmente non mi piace”. Eppure, allo stesso tempo, queste esperienze rimangono profondamente personali, soggettive. E così sentiamo e usiamo frasi come “questo pezzo mi parla di…” Sono questo tipo di esperienze che sono il fulcro dell’estetica, e così le chiamiamo “esperienze estetiche”. Questa tensione tra il personale e l’universale, quindi, è il principio guida dello studio dell’estetica.

Se l’estetica si occupa di esperienze come queste, allora diventa chiaro che limitarla a un solo tipo di esperienza o a una sola tradizione è ingiustificabile, persino ridicolo. E così, anche se molto del lavoro fatto dagli estetologi contemporanei ha le sue radici solo negli ultimi secoli, il mondo antico non era estraneo all’estetica. Platone (428/427-348/347 a.C.) pensava notoriamente che l’impatto che l’esperienza dell’arte poteva avere sulle persone fosse così potente da essere pericoloso, e che l’arte non avesse nulla da offrire alla filosofia, poiché essa si limita a imitare questa realtà, mentre la filosofia cerca la vera realtà ([380 a.C.] 1974, libro X, 595a-605c). Dunque l’arte è una forma di inganno, per così dire.1 In contrasto con questa convinzione, il filosofo epicureo Filodemo (c. 110-30 a.C.) scrisse un’opera dedicata ad esaminare la rilevanza filosofica del corpus omerico (vedi Asmis 1991), 2 e Agostino (354-430 d.C.) ([386-87] 2007) sostenne che lo studio della poesia è un importante passo introduttivo alla filosofia (2007). In Cina, Confucio (551-479 a.C.) condivideva il sospetto di Platone sull’arte, ma valutava positivamente la capacità di apprezzare la bellezza perché sviluppava la sensibilità personale e le qualità morali (2006), mentre il suo contemporaneo in India, Bharata, 3 insegnava una teoria del rasa come fine delle arti, un concetto non troppo dissimile dalla nozione aristotelica di catarsi 4 (1950-1961; vedi Gerow 2002).

Questa breve panoramica dei tipi di esperienze che chiamiamo estetiche, tuttavia, solleva un’altra questione che è spesso trascurata: la consueta restrizione dell’estetica alle opere d’arte e ai fenomeni naturali non è incompleta? Non è raro che un’equazione matematica sia definita “bella” o che concetti e termini estetici siano usati in contesti come le interazioni sociali, le manovre militari e persino la politica.

L’estetica come disciplina del XVIII secolo

È un dato di fatto che, come ho detto sopra, la disciplina come la conosciamo oggi ha le sue origini in gran parte nell’Europa del XVIII secolo, e quindi una breve panoramica di questa tradizione di pensiero non è fuori luogo. Questa sezione, quindi, fornisce una panoramica storica delle origini dell’estetica come soggetto filosofico moderno nel XVIII secolo, e tratteggia il suo rapporto con le belle arti fino al moderno interesse per la cultura pop. La discussione qui non vuole essere un quadro storico esaustivo, ma uno sguardo sulle questioni centrali dell’estetica negli ultimi trecento anni. Ciò fornirà elementi per una discussione sull’estetica come studio della bellezza.

Per dirla con Paul Guyer (2005, 25), l’estetica

non fu battezzata fino al 1735, quando il ventunenne Alexander Gottlieb Baumgarten, nella sua dissertazione Philosophical Meditations on some matters pertaining to Poetry, introdusse il termine per designare “la scienza per dirigere la facoltà inferiore di cognizione o la scienza di come qualcosa debba essere sensibilmente conosciuto”.

Lo stesso Baumgarten, tuttavia, stava lavorando in un campo avviato circa venti anni prima, con il lavoro del Conte di Shaftesbury (Characteristiks of Men, Manners, Opinions, Times, 1711), e dei suoi due seguaci Joseph Addison (The Pleasures of the Imagination in The Spectator, 1712) e Frances Hutcheson (An Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue, 1725) in Gran Bretagna, e il lavoro di Jean-Baptiste Du Bos (Critical Reflections on Poetry, Painting, and Music, 1719) in Francia. Shaftesbury (1671-1713) fece l’importante distinzione, sostenuta ancora oggi, tra il godere di qualcosa per il beneficio che porta ad una persona – sia esso fisico, mentale, emotivo, o qualsiasi altro tipo di beneficio – e il godere di qualcosa per il suo stesso valore, semplicemente perché è degno di essere goduto ([1711] 1999, 318-319).

La risposta di Shaftesbury alla domanda fondamentale dell’estetica – come è possibile che la nostra esperienza sia sia soggettiva e tuttavia in un certo senso oggettiva e universale – afferma, in modo piuttosto platonico, che la bellezza del mondo naturale e le opere create dall’umanità conducono la mente “più in alto”, a un apprezzamento della bellezza dell’intera creazione, e infine al suo creatore, la fonte di tutta la bellezza (Shaftesbury [1711] 1999, 322ss). Questo spiega come facciamo a dare giudizi estetici, dal momento che abbiamo uno standard oggettivo di bellezza a cui possiamo fare riferimento, anche se possiamo conoscere questo standard solo attraverso la nostra esperienza delle sue manifestazioni concrete, incamminandoci sulla via di un necessario perfezionamento. David Hume, sebbene abbia scartato la nozione di un creatore di bellezza e abbia invece sostenuto che ci muoviamo con l’immaginazione verso il riconoscimento di una qualche forma di utilità – reale o meno ([1739-40] 2009, 463-470) – ha compreso la necessità di un qualche tipo di standard per spiegare il nostro uso dei giudizi estetici, e così ha introdotto l’idea di un critico ideale i cui sensi fossero perfettamente affinati alla ricezione delle esperienze estetiche (Hume [1757] 2000).5

Un’altra importante distinzione influente del XVIII secolo fu fatta dal filosofo e statista britannico Edmund Burke (1729-1797), che distinse tra il bello e il sublime. Per Burke ([1757] 2005), la bellezza è una qualità sociale, “dove le donne e gli uomini, e non solo loro, ma anche altri animali ci danno un senso di gioia e piacere nel guardarli (e ce ne sono molti che lo fanno), ci ispirano sentimenti di tenerezza e affetto verso di loro” (parte 1, sez. 10). Il sublime, d’altra parte, è l'esperienza più profonda, la più intensa, “l'emozione più forte che la mente è capace di sentire” (parte 1, sez. 7). Il sublime è orientato verso ciò che è al di là della nostra comprensione, mentre il bello, per Burke, non ha una fine apparente. Così, per esempio, se ascoltando If Love's a Sweet Passion di Henry Purcell ci si commuove fino a uno slancio di emozione, persino alle lacrime, Burke considererebbe questa un’esperienza sublime, a causa del suo potere di richiamare emozioni forti e passionali. Ciò che è notevole in questa distinzione è che il concetto di sublime di Burke permette che esperienze estetiche “negative”, come l’esperienza dell’opera d’arte di realtà virtuale di Jordan Wolfson Real Violence, siano considerate sublimi, e quindi valutate positivamente. Tale opera d’arte è in grado di indurre “le emozioni più forti” che, per Burke, possono alla fine portarci oltre l’opera d’arte a qualcosa di più grande, e quindi l’esperienza di essa è sublime.

Probabilmente l’opera filosofica più importante sull'estetica nel XVIII secolo, tuttavia, fu scritta dal filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), cioè la Critica del giudizio (1790). Come è evidente dal titolo della sua opera, Kant considerò fondamentale la questione del giudizio estetico, facendone il fulcro della prima metà del suo libro. Una discussione completa dell’opera di Kant è al di fuori dello scopo di questo capitolo, ma alcuni punti sono degni di essere menzionati qui.

In primo luogo, la formulazione di Kant della facoltà di giudizio è influenzata da quella di Shaftesbury e Hume, e la sua caratteristica più nota è il disinteresse per l’oggetto del giudizio. Ciò significa che l’osservatore, la persona che fa l’esperienza estetica, non ha interessi legittimi nella cosa sperimentata, e quindi il giudizio è al di fuori di qualsiasi beneficio personale (Kant [1790] 2015, sez. 2).

Kant ha mantenuto la distinzione di Burke tra il bello e il sublime, ma l’ha modificata in un modo che raccoglie anche i fili di Shaftesbury. Per Kant, la bellezza è presente quando discerniamo l’intelligibilità di ciò che sperimentiamo senza alcun apparente fine ultimo. Così la bellezza presenta, per Kant, il paradosso di essere propositiva – cioè apparire come se fosse stata in qualche modo progettata – ed essere senza uno scopo apparente effettivo. Per esempio, quando guardiamo un fiore che chiamiamo bello, la sua bellezza sembra essere progettata, avere uno scopo. Eppure non è evidente alcuno scopo particolare, nessun concetto chiaro di “a cosa serve questa bellezza”. Allo stesso modo con un tramonto, possiamo meravigliarci della sua bellezza e sentirla come uno scopo, ma non c’è uno scopo chiaro e definito – del resto, quale scopo potrebbe avere la bellezza di un tramonto? Il sublime, d’altra parte, entra in gioco quando ci troviamo di fronte a qualcosa di così veramente impressionante che rifiuta tutti i tentativi di comprensione, e noi stiamo semplicemente in sua presenza, per così dire (Kant [1790] 2015, sez. 23-29). Il poeta e cantautore ebreo americano, Leonard Cohen, ha espresso questo abbastanza bene spiegando il sentimento della sua canzone più famosa, Hallelujah:

Questo mondo è pieno di conflitti e di cose che non possono essere riconciliate, ma ci sono momenti in cui possiamo trascendere i [contrari]... e riconciliarci... Indipendentemente da quanto la situazione [sembri] impossibile, c'è un momento in cui apri la bocca, apri le braccia e abbracci tutto il casino... e dici semplicemente “Alleluia! Benedetto sia il nome”. (Cohen 1988)

Per Cohen, la canzone riguardava il riconoscimento che ci sono alcune cose nel nostro mondo che sono così grandi da essere al di là di noi, e quando intravediamo quel quadro più grande, anche solo un po’, la nostra risposta è gridare, nelle parole di Cohen, “Hallelujah!” La formulazione di Cohen è particolarmente adatta perché, per Kant (come per Shaftesbury), è attraverso esperienze estetiche come queste che arriviamo a conoscere la fonte ultima della bellezza o il sublime.

Kant risponde alla tensione tra personale e universale nelle esperienze estetiche collegando l’esperienza dell’estetico con la natura fondamentale degli esseri razionali (Kant [1790] 2015, sez. 5). Per Kant è intrinseco e proprio della razionalità essere in grado di vedere le cose come dotate di valore per se stesse – ciò è, infatti, la base della sua teoria della moralità nella Critica della ragion pratica. Questa capacità, tuttavia, può essere usata in due modi: pragmaticamente o in un modo che chiamerò “estetico”. Nel primo caso, usiamo questa capacità solo per quanto riguarda il ragionamento puramente pratico (soprattutto morale), e quindi la capacità di vedere una cosa come intrinsecamente dotata di valore è di per sé una capacità puramente pragmatica. Per esempio, immaginate che qualcuno venga da voi a chiedere finanziamenti per una scuola materna di musica. Voi potreste ragionare sul fatto che la musica ha un valore intrinseco, e quindi vale l’onere finanziario di finanziare la scuola, e questo sarebbe un processo di pensiero giusto. Ma notate in questo esempio che la capacità di vedere qualcosa come intrinsecamente dotata di valore è soggetta alla più grande, pratica domanda: “dovrei finanziare questa scuola materna di musica?” Questo uso del valore intrinseco come strumento di ragionamento è ancora più comune nel ragionamento morale, dove si potrebbe ragionare sul fatto che è sbagliato fare del male a un animale perché la vita stessa ha un valore intrinseco e quindi vale la pena proteggerla. Notate di nuovo che c’è un “e quindi l’azione x dovrebbe essere fatta”. Chiaramente, la capacità di vedere una cosa come dotata di valore in sé può diventare un’abilità puramente pragmatica, cioè un’abilità utile, ma non intrinsecamente dotata di valore. Questo perché se usiamo la nostra capacità di vedere le cose come preziose in sé stesse solo per aiutarci a prendere decisioni, allora essenzialmente stiamo trattando questa abilità solo come uno strumento da usare per migliorare il nostro processo decisionale su cosa fare o non fare. Proprio come la nostra capacità di vedere lo spazio (cioè la nostra capacità di percezione della profondità) è uno strumento che ci aiuta a muoverci nel mondo fisico, così anche la nostra capacità di vedere le cose come dotate di di valore in sé è, se usata esclusivamente per il ragionamento pratico e morale, semplicemente uno strumento che ci aiuta a muoverci nel mondo morale.

In questi esempi di “valutazione intrinseca pragmatica” sebbene l’approccio possa essere unicamente razionale, esso è ancora pratico; ma se mettiamo da parte tutti i pensieri pratici e osserviamo qualcosa considerando il suo valore intrinseco – la natura nel suo insieme è l’oggetto più perfetto per questo, secondo Kant (vedi Kant [1790] 2015, sez. 6) – allora ci impegniamo nell’attività più unicamente razionale possibile (sez. 49). E, se è così, allora ne consegue che è anche, per Kant, una forma di libertà per l’essere razionale, in cui la razionalità non è vincolata dalla necessità di scegliere o deliberare, ma può puramente sperimentare il valore di qualcosa semplicemente perché ha valore. Così, per Kant, l’estetica diventa l'attività più unicamente personale – anche la più unicamente umana – poiché è la funzione e l’espressione della razionalità a sperimentare esteticamente.

Questi temi dell’estetica del XVIII secolo mettono in evidenza la tensione al cuore dell’estetica, la tensione tra il personale e l’universale. In particolare, la nozione di Kant dell’esperienza estetica come unicamente, persino supremamente razionale mette in evidenza questa stessa tensione. Lo fa evidenziando l’elemento unicamente razionale – che è, naturalmente, universalmente umano – e l’elemento unicamente personale dello stare in presenza della fonte di quell’esperienza, insieme al suo ruolo (per Kant) di stimolare un viaggio personale dalla cosa bella o sublime alla bellezza e alla sublimità in quanto tali. Anche se, per Kant, tali esperienze si trovavano in gran parte (anche se non esclusivamente) nel mondo naturale, la causa – cioè, se l’oggetto dell’esperienza estetica è naturale o creato dall’uomo – non è importante per la nostra discussione. Ciò che è importante è la connessione tra la disciplina del XVIII secolo e quella tensione fondamentale che ho notato prima. Così si può veramente dire che l’estetica è una disciplina del XVIII secolo, perché è qui che troviamo l’approccio più influente a quella tensione che è il suo cuore.

L’estetica come studio della bellezza

 

Come la discussione precedente ha evidenziato, alle sue origini l’estetica filosofica moderna nel XVIII secolo ha avuto la tendenza a concentrarsi sulla questione della bellezza (e i suoi correlati, come la sublimità, la bruttezza e così via). Questo solleva immediatamente la questione, naturalmente, di cosa si intenda per bellezza, perché questa non è una semplice proprietà come il rosso o il quadrato. Piuttosto, la bellezza è una qualità, intangibilmente costituita da caratteristiche diverse con tagli diversi, e ciò che è bello in una cosa potrebbe non esserlo in un’altra – per esempio, i bordi duri possono sembrare attraenti su un edificio, ma non su un gatto.

Quindi la prima domanda è: cosa rende bella una cosa? Mentre questo argomento sarà discusso in dettaglio a tempo debito, si può sottolineare qui che se è vero che le esperienze estetiche sono quelle che mantengono la tensione tra il personale e l’universale, come ho sostenuto in questo capitolo, allora è ragionevole che qualche aspetto di ciò che rende qualcosa bello, che potremmo chiamare “oggettivamente piacevole”, 6 deve parlare proprio di questa tensione. Naturalmente, come abbiamo visto, questa è la questione fondamentale dell’estetica, quindi ciò forse non sorprende. Tuttavia vale la pena di prendersi un momento per esplorare la relazione tra la bellezza e la tensione tra il personale e l’universale. Sollevare questa questione ci porta, tuttavia, a espandere il concetto di bellezza e deformità (come la chiamerebbe Hume) o bruttezza (come potremmo dire oggi), per essere una sorta di segnaposto per tutte le esperienze che tendiamo a universalizzare. Questo perché è chiaro che se l’estetica è lo studio della bellezza – come si dice spesso – può esserlo solo se consideriamo la bellezza in modo tale da includere molto di più di ciò che è semplicemente piacevole.

Se torniamo alla definizione operativa di estetica presentata all’inizio di questo capitolo, comprendiamo che la piacevolezza non può essere sinonimo di piacere in contrapposizione al dolore, perché questo non terrebbe conto della “piacevolezza" di guardare il rotolo appeso di Utagawa Toyokuni (1769-1825), Cortigiana nel suo boudoir, che ritrae una cortigiana che si sistema dopo aver fatto sesso, vista mentre si ferma i capelli con i vestiti ancora parzialmente aperti. L'immagine non è felice, e trarne godimento in un modo che ignora la tranquilla tristezza del quadro sembra perverso, certamente fuori luogo. Invece godiamo di questa immagine proprio per la sua rappresentazione di una situazione tinta di tristezza. O ancora, l’esperienza di un’equazione matematica che si è lottato per ore per raggiungere può avere un certo piacere intellettuale per il superamento delle difficoltà che essa presentava, ma non ha nulla a che fare con la piacevolezza dell’equazione in quanto tale. La piacevolezza si trova invece nell’eleganza e nella semplicità dell’equazione, nell’originalità del pensiero, e così via, nonostante il dolore, la lotta, la frustrazione e la stanchezza provati nell’affrontarla. L’esperienza di leggere la poesia di Thomas Hardy La passeggiata (The Walk), scritta dopo la morte della moglie, è un altro esempio di questa distinzione:

La passeggiata

Non hai camminato con me
ultimamente, verso l’albero in cima alla collina
per le strade recintate,
come nei giorni precedenti.
Eri debole e zoppa,
quindi non sei mai venuta,
e sono andato da solo, e non mi è dispiaciuto,
senza pensare a te che eri rimasta indietro.

Oggi ho camminato fin lassù
proprio come prima;
ho osservato intorno
il terreno familiare
da solo, di nuovo:
quale differenza, allora?
Solo quel senso di fondo
dell’aspetto di una stanza al ritorno da lì.

Questa poesia è satura di dolore, e quando la leggiamo sentiamo quello stesso dolore, e sarebbe sbagliato descriverci come se trovassimo piacere nel dolore di Hardy. Eppure la poesia è piacevole – cioè bella – nella sua capacità di catturare, contenere e trasmettere quell’emozione.

Questa “piacevolezza oggettiva” che troviamo in queste esperienze estetiche, quindi, sembra essere separata dalla questione del nostro godimento e dalla valutazione della causa di quell’esperienza. Questo spiega come ci si possa aspettare che apprezziamo un libro, un dipinto, una scultura, un pezzo di musica e così via anche se non ci si aspetta che ci piaccia, perché la piacevolezza dell’esperienza estetica – che potremmo chiamare il nostro apprezzamento di essa – sembra essere separata dal godimento e dall’approvazione della causa di quell’esperienza. Se è possibile apprezzare un’esperienza, cioè avere una risposta appropriata ad essa, e tuttavia non amarla, allora sembrano esserci due elementi nell’esperienza di un individuo: uno puramente personale, e quindi non estetico in quanto tale, e l’altro personale eppure universale. È quest’ultimo elemento che costituisce l’esperienza estetica individuale propriamente detta. Questo potrebbe spiegare perché, nonostante la sua importanza nel diciottesimo secolo, la distinzione di Burke e Kant tra bellezza e sublime non è molto usata oggi, mentre la bellezza è diventata il concetto prevalente per tutte le esperienze che sono universali ma personali, e che noi crediamo abbiano “piacevolezza”. Così troviamo la nostra risposta alla domanda “che cos'è la bellezza?” in questo tipo unico di piacevolezza che si trova nelle esperienze estetiche, senza la loro “bontà” o piacevolezza personale.

Come mostrano questi esempi, la bellezza non è un concetto “a taglia unica” – o se lo è, appare così radicalmente diversa in taglie diverse che è solo in queste diverse forme che possiamo parlarne in dettaglio. Eppure, espandere la nozione di bellezza in questo modo non la rende inutile. Anche se sembra coprire una vasta gamma di esperienze e si applica a una gamma di qualità diverse – e a volte contraddittorie – la bellezza ha un ruolo come fattore determinante nei giudizi estetici. Quando abbiamo un’esperienza estetica, sentiamo che parole come “bello” sono unicamente appropriate: descriviamo come bello non ciò che impressiona, ispira ed è pieno di gioia, ma anche quelle esperienze sature di dolore e disperazione. Anche quando l’esperienza sembra troppo tetra, o ciò che è ritratto in un’opera d’arte è troppo sconvolgente o inquietante per essere a nostro agio nel chiamarla direttamente “bella”, non è comunque raro sentire parlare di un’opera d'arte come di “messa insieme in modo bello”. La bellezza, quindi, rimane ancora un concetto potente e utile nello studio dell’estetica.

Perché l'estetica?

Riunendo i diversi fili, siamo ora in grado di riconsiderare e fornire una risposta più completa alla domanda sul perché valga la pena occuparsi di estetica. Finora abbiamo parlato dell’esperienza di una tensione tra il personale e l’universale come il centro principale dell’estetica, ma, naturalmente, l’esperienza non può esistere se non c’è qualcuno che esperisca. E così l’individuo è un elemento cruciale nell’equazione di un’esperienza estetica. L’esempio precedente del rotolo appeso di Toyokumi suggerisce due aspetti importanti di questo elemento individuale.

Il primo aspetto ha a che fare con la “risposta adeguata”, o “la corretta piacevolezza”, come si potrebbe dire. Guardando la Cortigiana nel suo boudoir di Toyokumi sembrerebbe fuori luogo godere del dipinto perché include un seno nudo, per esempio: guardare l’immagine in questo modo non rende giustizia all’immagine come opera d’arte, certamente, ma soprattutto la denigra come oggetto di un’esperienza estetica. Allo stesso modo, godere l’immagine perché ci piace l’idea di una donna venduta alla vita di una cortigiana, che di solito soffre non solo di malattie veneree ma anche di avvelenamento da piombo per il trucco che indossa, sarebbe una risposta grossolanamente inappropriata, mancando il punto dell’opera d'arte e perdendo del tutto l’esperienza estetica. Un’osservazione simile può essere fatta sulla novella di John Steinbeck, Uomini e topi, in cui George deve uccidere il suo migliore amico Lenny; giustamente proviamo dispiacere per George ma troviamo il libro piacevole nella sua tragedia e nel suo mettere in evidenza una serie di ingiustizie, come quella di una società che non riesce a prendersi cura dei suoi membri più vulnerabili, l’ingiustizia di Lenny di cui nessuno si prende cura tranne George, l’ingiustizia di George messo in una situazione in cui pensa di non avere altra scelta che uccidere il suo migliore amico, e così via. Definiamo il libro bello, illuminante, e lo raccomandiamo ad altri. Tuttavia, se dovessimo godere del libro perché ci piace l’idea di sparare al nostro amico o di uccidere qualcuno con un handicap, allora di nuovo non avremmo la corretta risposta estetica. Quindi il primo aspetto dell’elemento individuale in un'esperienza estetica è la questione di una risposta appropriata.

Ciò è inestricabilmente intrecciato con il secondo aspetto, che è la questione dello sviluppo e della coltivazione dell’apprezzamento e della risposta appropriata. Se ci si può aspettare una risposta appropriata (indipendentemente dal godimento), allora si giunge naturalmente alla questione dell’educazione estetica, o come questa risposta appropriata venga a crearsi, e come si sviluppi la disposizione da cui nasce tale risposta appropriata. È logico che se i giudizi sulle esperienze estetiche devono essere universali – cioè se ci aspettiamo, come in effetti facciamo, che qualcun altro sia d’accordo con il nostro giudizio – allora possiamo farlo solo perché crediamo che sia capace di dare la stessa risposta appropriata (dato che, ovviamente, assumiamo che il nostro giudizio sia appropriato). Questo perché non possiamo aspettarci che abbiano una risposta che sia d’accordo con la nostra se questa risposta è casuale, o puramente basata sulla personalità – ricordando la nostra discussione all’inizio del capitolo, l’esperienza deve essere “oggettivamente personale”, cioè personale ma universale. Questo lascia solo due opzioni: 1) tutti nascono con la stessa identica disposizione ad avere una risposta appropriata che non cambia con la crescita; o 2) la disposizione di tutti ad avere una risposta appropriata cambia ed è influenzata dalle circostanze della vita e dell’esperienza di ciascuno. Il problema con la prima opzione è cercare di far rientrare coloro che non hanno una risposta appropriata: l’unico modo per farlo è dire che hanno un’anomalia innata. Ma in questo caso non dovremmo giudicarli. Del resto, non giudichiamo qualcuno nato cieco per il fatto di non essere d’accordo con noi sul fatto che l’oggetto davanti a noi è giallo: semplicemente non è possibile per loro essere d’accordo o in disaccordo, poiché sono fisicamente incapaci di sperimentare il colore giallo. Allo stesso modo, se diciamo che tutta l’umanità è innatamente disposta a risposte appropriate verso le esperienze estetiche, allora coloro che non hanno la risposta appropriata vanno “lasciati in pace”, per così dire.

Sembra, quindi, che l’unica opzione sia riconoscere che la nostra disposizione verso una risposta appropriata cambia e si sviluppa nel tempo, e quindi riconoscere la possibilità dell’educazione estetica, cioè l’educazione a sviluppare risposte appropriate. E, anche se l’obiettivo principale di questo capitolo è l’esperienza estetica individuale, vale la pena notare qui che questo cambiamento nella disposizione verso una risposta appropriata che avviene nel tempo è vero sia a livello individuale che a livello culturale/sociale. 7 Così, per esempio, per un greco antico la repulsione per la sproporzione era una risposta appropriata, mentre nella società occidentale contemporanea, nonostante questa possa essere la risposta di alcune persone, la sproporzione è culturalmente accettabile, e a volte persino la caratteristica più lodevole di un’opera d'arte (il pensiero va immediatamente a Picasso, per esempio). Per tornare al tema del cambiamento della disposizione verso risposte appropriate, nel riprendere questa opzione insieme all’affermazione che una risposta a un’esperienza estetica può essere appropriata o inappropriata (sebbene ci possa essere più di una risposta appropriata o inappropriata), allora riconosciamo immediatamente il ruolo della disposizione dell’individuo come fattore nelle esperienze estetiche, e quindi nello studio dell’estetica. Le esperienze estetiche sono la fonte dell’elemento personale nella tensione tra personale e universale che guida l’estetica come disciplina.

Questo suggerisce quindi di modificare la risposta alla domanda sul perché si dovrebbe studiare l’estetica, se consideriamo l’estetica come lo studio delle esperienze estetiche (come le abbiamo definite qui) che coinvolge sia l’oggetto che il soggetto di quell’esperienza. Secondo questa definizione, l’estetica è una disciplina degna di essere studiata perché esamina e cerca di spiegare la miriade di esperienze che costituiscono una gran parte dell’esperienza umana, in cui rispondiamo a qualcosa a livello personale, soggettivo, e tuttavia cerchiamo di universalizzarla a livello oggettivo. La sua materia si trova sulla soglia tra l’unicità dell'individuo e l’esperienza condivisa dell’umanità, e cerca di risolvere le controversie su se e perché possiamo aspettarci che gli altri condividano una particolare esperienza. Così l’estetica può essere definita come uno studio filosofico della bellezza (o della sua mancanza) e la nostra reazione ad essa – in una parola, il gusto.

Referimenti bibliografici

Agostino d’Ippona, L’ordine [De ordine], url: https://www.augustinus.it/italiano/ordine/index2.htm

Aristotele, Poetica, a cura di Manara Valgimigli, Laterza, Bari (335 a.C.) 1964 (quarta edizione)

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1 Diversi studi recenti, tuttavia, sostengono che Platone sia stato fortemente frainteso su questo punto (Levin 2001; Planinc 2003; Pappas 2012; Sushytska 2012).
2 Per una discussione della concezione epicurea della valenza filosofica dell’arte si veda Westenberg (2015)
3 Le datazioni della vita di Bharata vanno dal 500 a. C, al 500 d.C., ma la maggior parte la collocano tra il 500 e il 200 a.C.
4 Catharsis è una famosa concezione introdotta dalla teoria della tragedia di Aristotele. Detto semplicemente, è la purificazione delle proprie emozioni ottenuta attraverso una quasi-esperienza di quelle emozioni durante la rappresentazione di una tragedia. Si veda la Poetica di Aristotele,
5 Qui Hume considera le esperienze estetiche come esperienze di opere d’arte.
6 Significa che ci aspettiamo un certo livello di apprezzamento universale per l’oggetto della nostra esperienza. Le persone usano spesso questo concetto in modo naturale quando dicono, per esempio, "Non mi piace, ma posso apprezzarlo."
7 Ci si può chiedere, se la posizione di una società sull'estetica può cambiare, come possa essere considerata universale. La risposta sta nel fatto che la società nel suo insieme cambia perché qualcuno (o un gruppo di qualcuno) sfida ed “educa” (per mancanza di una parola migliore) la società ad un nuovo modo di pensare. Potremmo pensare al movimento impressionista, che ha sfidato il realismo prevalente nella pittura, è stato inizialmente rifiutato e poi è diventato ampiamente riconosciuto. In sostanza, qui non c’è distinzione tra l’individuo la cui disposizione cambia, ma mantiene la convinzione che le esperienze estetiche sono universali, e la società o la cultura che fa lo stesso.